Quello dell’astigiano Lexandher è un progetto sicuramente mainstream che parte però da un’idea a suo modo originale: miscelare influenze eterogenee, specie se provenienti una dalla musica più “commerciale” e l’altra da quella più “sotterranea” e vedere l’effetto che fa. Nascono così strani ibridi: “Point of view” unisce una voce alla Seal a una base chill out decisamente sbilanciata verso la dance, e alla fine entrano perfino dei fiati anni 80. “È solo musica” è una dance jazzata molto raffinata, su cui passeggia una voce che per timbrica ricorda Eugenio Finardi e perfino un po’ del miglior Alan Sorrenti, evocato anche nello svolgimento della melodia. “Domino” è uno strano incrocio tra Eiffel 65 e Tiziano Ferro, con tastiere che imitano chitarre distorte. “This is my life” unisce i Gabin e ancora una certa dance italiana anni 80: le tastiere sono mooolto chill out, ma sotto di esse pompa una drum machine “unz unz”. “Never get home again” si spinge ancora più in là, ibridando Gabin e i Koop, con perfino la comparsa di una chitarrina alla Wes Montgomery: è un funky pop jazzato, molto Fm Usa. Potrebbe essere un pezzo di Gino Vannelli, perché alla fine prende uno sviluppo molto anni 80. “Gravitazionale” è davvero nu-jazz di quello che fanno i Koop, cioè partendo dal bop, però sfoggia una voce alla Tiziano Ferro. “La macchina del vento” è puro Tiziano Ferro. Però il piano è troppo scarno, e il testo troppo debole e banale, come accade sempre in questo disco. La cosa migliore del lavoro è senz’altro “Home”, che inizia con un piano alla Elton John e pare preludere a una ballatona, cui però si intermezzano brevi stacchi elettronici. Finisce quasi subito: un appunto, un bozzetto.
Se la cosa migliore del disco è l’idea di mischiare materiali eterogenei fra loro, la peggiore sono i testi. Lexandher cerca l’immagine inedita, ma la sceglie spesso di rara bruttezza (“una valigia per tutti i difetti”; “in un angolo dei miei pensieri / arredato per dar spazio i tuoi perché”). Pare procedere per luoghi comuni, come se avesse paura di mettersi in gioco più profondamente e personalmente, che è il solo modo, poi, di avere la possibilità di scrivere bei testi.
In mezzo, le realizzazioni, ovvero i singoli brani, dai risultati fortemente discontinui (remix e altenate tracks sono meglio degli originali), e spesso tendenti all’insufficiente. Ma qualcosa c’è. Tutto dipende da una questione fondamentale: questo disco è il massimo sforzo che Lexandher è in grado di produrre o solo una specie di conta delle proprie possibilità, prima di decidere una direzione da approfondire? Ai prossimi lavori l’ardua sentenza.
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La recensione Gravitazionale di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-06-28 00:00:00
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