Se dovessimo a tutti i costi menzionare qualcosa di buono che il Cavaliere ha reso all'Italia, si potrebbe citare il fatto che ha dato alla satira di vignettisti e comici di tutto il Paese pane per i loro denti, cibo da consumarsi tassativamente lontano dagli schermi televisivi - amaro, ma pur sempre cibo.
Ed anche La famiglia Rossi a saputo attingere da questo ricco piatto, facendo di “Mi sono fatto da solo” il loro cavallo di battaglia, canzonetta che ha preceduto di gran lunga la loro fama - tant’è vero che per molti di coloro che ho sorpreso a canticchiarla, il nome della band suonava come niente di più che un appellativo generico da usare negli esempi (un po’ come Tizio e Caio).
Ma l’ironica canzonetta che narra le vicende di vita dell’uomo di Arcore rimane solo uno dei pochi episodi gradevoli dell’opera, nell’ascolto della quale rimane costante un senso di sconnessione - più concettuale che ‘strumentale’- che rende poco chiara l’interpretazione della ‘prospettiva’ dalla quale osservare e decodificare i singoli brani. In pratica non risulta chiara la chiave di lettura, ovvero non si capisce se la connotazione dei “Discorsi da bar” vuole essere positiva o negativa; succede che in alcuni momenti non si riesce a distinguere se il tono è ironico, sarcastico, serio, volutamente serioso o quant’altro. E questo in alcuni casi crea guai seri, specie se si toccano temi ‘delicati’.
Cito da “Discorsi da bar”, la traccia che dovrebbe fare da introduzione - quindi indicare un senso di marcia - all’opera: “Discorsi da bar su Saddam Hussein / per fortuna che questi non sono soci miei / la vergogna che sento nel petto / capire che il dolore degli altri a molti non fa più effetto”.
Ed ora immaginatevi un allegro ritornello ska di quelli che fanno sculettare le ragazzine che fa così: “E’ morto Pinochet! Eh-eh-eh-eh! E’ morto Pinochet! Eh-eh-eh-eh!”, magari durante un live, mentre tutti si divertono, zompano, scuotono le braccia e - sempre più vivacemente - il sedere…
E il dolore degli altri che non fa più effetto? Ovviamente non mi riferisco al dolore del tremendo generale cileno, ma a quello delle migliaia di persone che il dittatore ha fatto finire sottoterra col piombo in corpo, o a quello dei torturati, degli esiliati, degli ‘evaporati’.
Se poi si continua con: “La storia questa sera ci da soddisfazione / ed ha tirato forte lo sciacquone”, vengono le lacrime. Tutto questo è non solo un calcio in culo al rispetto per il dolore altrui, ma è pure un non-sense: qualcuno mi spieghi quale soddisfazione può mai dare la storia di un criminale che campa fino a novant’anni senza neppure essere processato per i crimini all’umanità commessi (dei quali nel testo della canzone non c’è nemmeno un minimo riferimento).
Mi dispiace, ma anche andando oltre nell’ascolto del cdnon si può sopportare una canzone del genere accanto ad un’altra intitolata “Resistenza!”. Dispiace perché non è certo questo il modo migliore per essere ‘di sinistra’, e dispiace perché - tutto sommato - “Discorsi da bar” è un disco suonato e registrato discretamente bene, ma ci sono alcuni ‘macigni’ che compromettono la stabilità dell’intera opera.
Le diverse atmosfere che si susseguono negli undici brani variano dal folk-rock classico della già menzionata “Mi sono fatto da solo”, caratterizzata dal ritmo terzinato stile tarantella, fino al trip-reggae di “Ti ho capito”, passando anche per il rock‘n’roll di “Habana Club” e per il walzer in dialetto bergamasco “Balabiòtt” (il tutto in chiave rigorosamente acustica).
Degna di nota è “Su Cantiam”, cover reinterpretata in stile disco anni ‘80 del satirico brano scritto da Dario Fo, il cui testo parla della ‘narcotica’ funzione della ‘anzonetta nella società del tempo; il brano è ricordato perlopiù come la sigla di Canzonissima ‘62, edizione iniziata sotto la guida del duo Fo-Rame, il quale dopo qualche settimana fu costretto - sotto i colpi della censura - a cedere l’incarico.
Detto ciò, e considerati anche i momenti ‘positivi’ dell’opera, rimane sempre presente quellamacchia su cui abbiamo disquisito in precedenza. Si badi bene: il mio non è una sorta di ‘vecchio moralismo di sinistra’ - per dirla alla Gaber ma una questione strettamente stilistica; se fosse chiara e costante la chiave di lettura sarebbe anche più facile definire lo stato d’animo con il quale avvicinarsi a certe atmosfere. Ma così non è, e si corre il grave rischio di essere fraintesi.
C’è chi - su altre colonne - ha tessuto le lodi di questo “Discorsi da bar”, azzardando paragoni fino a scomodare perfino il ‘gigante’ De Andrè; sinceramente rimango allibito di fronte affermazioni del genere. Probabilmente perché, in fin dei conti, è un disco che si è bruciato con le sue stesse pretese.
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La recensione Discorsi da bar di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-07-30 00:00:00
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