Negli ingenui tempi in cui il rap italiano era ancora una roba così tremendamente poco mainstream, lontana dall'immaginario a tinte viola odierno e privo di rime che va di moda ultimamente, lontano dai rappers a Pontida e da tutte le strane polemiche che guidano il genere nell'epoca dei social network, c'era una genuina passione per l'idea di rottura che questa musica, in Italia e nel mondo, portava con sé. C'era un'attitudine che accomunava proprio tutti e che, nel tempo, è rimasta invariata. Proprio questa "non cambia" in dischi come quello di CRX.
L'album si apre con delle chitarrine cattivissime, degno omaggio ai Beastie Boys, continua esplorando le sonorità del rap più classico (con tutto il flavour della golden age) per poi concludersi in un delirio neurofunk. Su batterie asciutte e linee di basso potentissime si alternano tutti gli amici della neonata Malaria Records e, tra le citazioni a Metal Slug ("Head Banger") ed extrabeat a effetto, il buon Carosi ci parla di ciò di cui un disco rap dovrebbe parlarci: i cazzi propri e personali di chi il rap si trova a farlo. Non c'è bisogno di tentare di salvare il mondo, né tantomeno di spiegarcelo teleologicamente (come qualche intellettuale vorrebbe), né tantomeno c'è il bisogno di comporre un disco i cui brani siano una raccolta di singoli da lanciare in pasto all'internet, per realizzare un disco rap che abbia una sua dignità.
Pratico, realista, senza ammiccare a nessuno stereotipo, il primo prodotto ufficiale di CRX è un buon punto di partenza su cui costruire qualcosa di ben più solido.
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