Questo è uno di quei dischi che fa gridare al miracolo, tanto è bella e credibile la versione del prog che The Winstons danno. Si dirà: certo, e difatti il progressive è stato l’unico ambito rock in cui l’Italia abbia guadagnato una solida credibilità estera. Ok, ma il gioco che fanno The Winstons è di prescindere totalmente dalla tradizione prog italiana, seppur nobilissima (cinque nomi: PFM, Le Orme, Banco del Mutuo Soccorso, Area, New Trolls), ricollegandosi invece all’altrettanto grande tradizione inglese e (perfino) americana e rimaneggiandola e imbastardendola come scienziati pazzi.
Il disco è un caleidoscopio di suggestioni che danno vita a brani sempre piacevoli e orecchiabili. La base di riferimento sono i Gong di Daevid Allen e i Soft Machine dei primi due album, ma qua e là sprizzano scintille di altri grandi band del passato: i Gentle Giant (“Nicotine Freak”), i Genesis che incrociano i Pink Floyd più sinfonici (“…On A Dark Cloud”: ma sarebbe meglio dire che Tony Banks incontra Rick Wright), i primi Pink Floyd, pre-“Ummagumma” e già post-Barrett che incrociano incredibilmente i Doors e gli Stranglers in “She’s My Face", la quale profuma pure di Colosseum, Paul McCartney che duetta con Syd Barrett in “Dancing In The Park With A Gun”.
Gran parte del fascino del disco sta negli incroci “impossibili” che sarebbe stato bello ascoltare nella storia del rock, a cui si unisce spesso una robusta vena funky, buona lezione ereditata forse dai Calibro 35 da cui proviene Enrico Gabrielli. Completano la formazione Roberto Dell'Era e Lino Gitto. Collaborano qua e là Xabier Iriondo e Roberto D’Azzan. Disco di grande credibilità e statura internazionale. La risposta italiana a Steven Wilson? Chissà, chissà. Intanto, album im-per-di-bi-le.
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