Dire che Roberto Frugone vive la musica, è riduttivo. Di musica, questo ragazzo trentenne della provincia genovese, si nutre: la scrive, la canta, la suona, l'arrangia. In due parole: ci campa. "Chi fa sfoggio di virtù è poco umile", ho pensato sulle prime. Poi, arresomi all'evidenza, mi sono ricreduto, optando per l'idea di un personaggio ambizioso che propone arte con orgoglio consapevole, siccome è proprio dalla parte degli umili, della gente semplice, delle cosiddette "minoranze", di quanti lottano per un sorriso, che ha scelto di stare, mentre dalla sua, quale tassello decisivo alla credibilità di artista, un organico di tutto rispetto al gran completo (cori, armonica, fisarmonica, fiati, djembé e bouzouki inclusi). Cantore della gioia delle piccole cose, del mistero magico della natura, dei genuini sapori della terra, senza lesinare, scampando alle insidie di un cliché (forse) troppo buonista, uno sguardo critico sulla realtà contemporanea. E poi la concezione del viaggio, di un peregrinare perenne lungo un percorso musicale che va a specchiarsi, a onor di metafora, in quello esistenziale. Tanta schietta political correctness mi ha spinto, lo confesso, un po' alle corde, così ho deciso di affilare la penna, per tentare almeno di riguadagnare il centro del quadrato. Alternando piano e tastiere, Frugone muove i propri istinti verso folk e musica etnica, per sconfinare talvolta, discretamente, in territori da essi distanti. Col merito di nobilitare qua e là il dialetto genovese, e il neo di risentir sovente dell'impronta di alcuni autori e interpreti della canzone italiana, sempre non consideriate un limite, alla lunga, strizzare tre occhi a più di un gigante nostrano. Ci sono episodi eleganti, quali "Blue samba" (omaggio a "Blue tangos" di Paolo Conte ?), "La ballata del giglio" (dalla suadente ritmica swing), e "Il mio nome" (con ritornello fox-trot); frangenti evocativi, misticheggianti ("Mi hanno parlato di autunni"), dove in un passaggio, ahimé, pare che Mango e Battiato si dìano il cinque; brani anonimi, un po' cerebrali e pretenziosi ("L'ultima parola", "Mille franchi"); altri intensi ed emblematici , ovvero "Spostamenti sul confine", con piano e sax soprano introdotti in arabo da Mohamed Jbiloo, e "Ultreïa!" ("Vai oltre!", dal latino medioevale), a riassumere quell'ideale di moto perpetuo che anima viandanti e giullari, dei quali lo stesso Frugone si dichiara un erede. Ma ecco a voi le perle, signori. "La macina" è talmente bella, delicata e sognante, che si può sorvolare su di un'apertura con voce in stile Fortis e liriche versione "Fiore di maggio" di Concato, armonica blues un tantino ballata di Edo Bennato e melodia che sembra chiamare a raccolta il meglio della Mannoia e Branduardi. Resta uno splendido pezzo, anche perché, in tempi ipertecnologici, Frugone osa dire " … ed io che butto sognando i miei pezzetti d'amore sui tuoi campi di gramigna e di riso … di questo si vive, di questo si muore: gira la macina … e saremo pane". (Chi scrive, invece, immagina Fossati col pollice su). "Pesca pescou",in dialetto genovese "Pesca pescatore", avrebbe egualmente il beneplacito del maestro De André (e non solo in virtù di un titolo analogo). I cori finali di Olivia Bertagna e Sara Conviti che cantano "O mare, tant'acqua, me lo spieghi perché non ti si può bere! ", mi hanno messo in comunione con l'universo: così africaneggianti e affatto scontati, quasi un messaggio nella bottiglia a interrogarsi sulle ragioni del cosmo. Chiude la magica terna "Un giorno sulla terra", deliziosa ninna nanna a due voci intrisa di una cinica ironia rischiarata appena da una legittima speranza di un mondo migliore. Che altro dire? La produzione del disco è con la P maiuscola e Frugone si dimostra cantautore a tutto tondo, colto, sensibile, preparato. Una ventata di originalità in più, e il coup de chapeau è assicurato.
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La recensione Ultreïa ! di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-08-25 00:00:00
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