Si intitola “Abracadabra” ma la magia non c’entra se dietro c’è Amaury Cambuzat con gli Ulan Bator. C’è semmai una musica che ha a che fare con il concetto di credibilità. Che cosa rende credibile un artista? Nel caso degli Ulan Bator la risposta potrebbe essere qualcosa di anomalo e semplice al tempo stesso: avere rispetto del proprio talento. Non è poco e non è facile: il prezzo da pagare per molti è insostenibile. Non per Cambuzat.
“Longues Distances” è notte che si trasforma in note, folk che si fa avanguardia e overdrive, piglio avant-garde che diventa reiterazione e ipnosi: se qualcuno dice Swans non sbaglia poi così tanto. “Coeurrida” è post rock tipicamente Ulan Bator, con pochi versi sussurrati che creano increspature all’interno di un crescendo azzeccato. Ancora più bella ed emozionante è “Ether”, una canzone costruita per raccontare l’epica, qualcosa che gli Arcade Fire hanno volutamente perso per strada e di cui si sente tuttora la necessità. “Eva Kedebra” evidenzia il lato più dissonante e sonico della band, un suono che oggi sembra alieno e fuori schema ma che negli anni Novanta ha contribuito a sdoganare un altro modo di intendere e mettere in pratica la parola indie. Ecco insomma che cos’è “Abracadabra”: il ritorno di una band che per vent’anni ha contato tanto da questa parte del mondo e che continua a significare parecchio.
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