Brothers in Law
Raise 2016 - Rock, Pop

Raise

Stanno per aria, ma anche per terra. Sanno che là fuori è un mondo difficile, ma hanno capito come affrontarlo. E ci fanno vedere un lato convincente, appassionante e che ci fa sperare bene per il futuro.

Un piccolo viaggio (in salita, visto il titolo) tra atmosfere sognanti, chitarre improvvise che vogliono fare muro del suono, riff magnetici che restano ben impressi. Benvenuto “Raise”, secondo disco dei Brothers in Law, la band che da Pesaro ci aveva fatto ingolosire 3 anni fa con il debutto “Hard Times for Dreamers”. Non hanno perso la strada di casa, i punti fermi a cui fanno riferimento sono ancora tutti lì. Stavolta, però, mettono sul piatto un lavoro più pieno, rotondo, maturo. E meno cupo, nelle musiche e nei testi. È un disco in cui le impalcature sono spesse, non più fragili com’era normale fossero nell'esordio. In parte è perché hanno assunto un basso e una batteria completa, certo. Ma il merito è anche delle decine di concerti fatti in questi anni, in giro per l'Italia e non solo.

Dicevamo, i punti fermi. Il dream-pop. Che a tratti vira più aggressivo verso lo shoegaze, quasi a ricordarci quei fuoriclasse degli Slowdive. E che non disdegna, ancora una volta, una strizzatina d'occhio verso quel suono da british wave minimalista anni '80. Il tutto condito, chiaramente, da una massiccia dose di delay e riverberi, che hanno però il merito di non ovattare troppo una forma canzone sì decostruita, ma sempre vicina al pop.

Perfetta come traccia d'apertura è “Oh, sweet song”. Un setting che dà le coordinate utili per capire, via via, il disco. Un pezzo carico, etereo ma allo stesso tempo sporco. Più classicamente indie, e se vogliamo pure semplice, “All the weight” (ce ne fossero eh). “Middle of nowhere” è un altro piccolo assaggio di talento, che immaginiamo capace di sprigionare molta forza soprattutto dal vivo. Con “Through the Mirror” si viaggia oltremanica, aumentando e dilatando l’acceleratore del ritmo. Ci si asciugano le lacrime con “No more tears”, che ha delle aperture quasi epiche nel suo salire incessante. Poi, verso la fine, si sperimenta e ci si guarda dentro, per esempio con “Compose”, inserto strumentale breve e affascinante: su uno sfondo quasi noise, si ripete come un mantra un botta e risposta di riff tra chitarra e tastiera, che si conclude idealmente nel più scuro brano di chiusura.

Insomma, i nostri “cognati” pesaresi sono tornati. Stanno per aria, ma anche per terra. Sanno che là fuori è un mondo difficile, ma hanno capito come affrontarlo. E ci fanno vedere un lato convincente, appassionante e che ci fa sperare bene per il futuro. 

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