Una pseudo Patsy Kensit (emulata dalla brava Alessandra Rossi) ingabbiata dentro una matassa di gelidi beat novantiani (l’opener “This time”) mette le cose in chiaro fin da subito: ai Kay Alis piace crogiolarsi nostalgicamente dentro l’elettronica più scenografica degli ultimi 40 anni. Concettuale o radiofonica che sia poco importa, l’importante è scorrazzare – con innegabile mestiere e filologica sensibilità – nella trasversalità più accattivante, per non annoiare e per non annoiarsi.
Tra patinato revival, ricercato divertissement e certosina cura dei dettagli la band ternana saltella – come da una pozzanghera all’altra – dalle magnetiche pulsazioni bristoliane di “The reason why” e “Taste away” alle fregole ethereal wave di “514” e “Upside down”, dal synthpop caleidoscopico à-la Ladytron (forse l’influenza più ingombrante del lotto) di “Understanding” e “Anidroid” a quello più danzereccio in stile Visage di “I don’t know” (brano dal groove irresistibile curiosamente collocato in chiusura disco). E poi ancora, fugaci riferimenti alla Kosmische Musik così come filtrata da un Mike Oldfield qualsiasi (“Epinephrine”) e una subdola tentazione di battezzare ex novo una Italo Disco 3.0 a colpi di cupa electro nordeuropea (la già citata “This time”).
A fine giro di giostra rimane il buon sapore sintetico di un’esterofilia piaciona che si fa largo a colpi di transistor ma che tuttavia lascia aperto il campo ad auspicabili personalizzazioni future.
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