T’immagini che la sala prove di Manuel Volpe sia una stanza sperduta in un quadratino del Mediterraneo: un po’ Sicilia, un po’ Africa, un po’ resto del mondo. “Albore” nasce in un contesto senza radici ma dall’identità forte, il corpo qui la mente altrove il cuore ovunque. C’e la voce di Manuel che già è un lento fuoco di suo e che nel nuovo disco accentua notevolmente il timbro profondo e tormentato, perfetto per un racconto folk nordamericano e (poco) rassicurante. A questo giro però il musicista siciliano vira verso un blues jazzato che colpisce per visione d’insieme e cura del dettaglio, grazie anche al supporto dei Rhabdomantic Orchestra, che co-firmano l’album e incidono in maniera sostanziale al sound etnico delle canzoni.
“Atlante” si regge su un basso che non si limita a tenere il tempo ma detta la musica e indica la via: è un sei quarti compatto e oscuro, songwriting occidentale su arrangiamento mondiale. “Rhabdomancy” è come sentire Devendra Banhart che suona con Mulatu Astatke e gli Heliocentrics: c’è un groove notevole e la band gira che è un piacere. “Reveal” estremizza questo approccio con un Volpe che si nasconde e lascia che sia una jam session di strumenti buoni a fare il resto. Poi c’è “Wheat Field” che chiude splendidamente concedendo campo libero a Manuel Volpe, uno che nel primo disco ci ha stupito e che nel nuovo ci ha stregato.
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