Quante cose da raccontare, una densità di memorie e fotogrammi lungo scenografie di un tempo perso nel bianco e nero, e con l’abilità da narratore di Max Collini ogni atto, ogni parola, prende forma davanti agli occhi: l’attenzione non scema mai, non puoi far altro che restare lì ad ascoltare, a lasciarti infatuare. Sotto l’onda ora irruente, ora ironica o nostalgicamente temeraria di un recitativo seducente, si distendono le creazioni musicali di Jukka Reverberi, le chitarre che sottolineano i passaggi più acuti, l’elettronica che riflette minimale gli apici letterari o le soluzioni più sorprendenti nella ricerca verbale.
La politica è un tema centrale ma non è mai un noioso fardello o un divertissement da esperti di relazioni internazionali: è la vita, la chiave di lettura delle nostre esperienze, la somma delle idee che ci spingono verso una strada piuttosto che un’altra. L’illustrazione, poetica e militante, di episodi e ricordi legati da un sottile filo rosso, un rosso che andava sbiadendo e assumendo sfumature diverse, di una Reggio Emilia state of mind, ha il fascino delle conversazioni di una volta, del ritrovarsi, e i molteplici spunti letterari (da Simone Lenzi a Simona Vinci, a Paolo Nori) che muovono i brani si sposano perfettamente alle visioni di Collini, al procedere preciso, netto, ora intimo ora universale, di una frase dopo l’altra.
“Austerità”, che dà il titolo all’album, è un brano che trova subito la via proprio sotto pelle, è come se una vena s’aprisse per accoglierlo, di una bellezza struggente eppure elegante, una deriva sobria, la dignità nel pianto, e quel ripetuto “Prendi quello che vuoi” che s’abbandona in oceani di inatteso post-rock: l’ho amata subito, davvero. E irresistibile, in tutt’altro senso, è il ciclostile del 1986 firmato da Collini e Arturo Bertoldi che diventa il testo di “Sendero Luminoso”: al grido di “Ai machete, Compagni!” i due prendono in giro (ed è un eufemismo) in modo assolutamente irriverente e con incomparabile ironia i rappresentanti di Partito riuniti in una assemblea dallo stile fin troppo borghese. Il tappeto musicale su cui si stende è incalzante e segnato dalla cadenza della cassa quasi a sottolineare la marcia verso la dittatura del proletariato. Inevitabilmente rido da sola come un’idiota davanti al monitor.
I dodici minuti e più di “Vera” corrono veloci per scoprire, lungo effetti minimi e dissonanti, la realtà dei collettivi studenteschi del 1985 ma soprattutto chi è la ragazza protagonista e come va a finire: divertente e amara nella sua costruzione perfetta, riesce a distrarre dal lungo minutaggio grazie a una scrittura sciolta e a soluzioni sonore ipnotiche. La cosa che stupisce di più in questo album è la capacità di passare da un registro drammatico a uno più giocoso con facilità, come nella vita è d’obbligo in fondo, come il volto dei mimi che in un momento attraversano infinite espressioni: e così “Bagliore” e “Ti aspetto” sono scavare nel dolore, hanno il peso specifico dell’assenza e la musica lo sa, lascia che la notte scorra impietosa sulle tragedie per lenire l’addio, e c’è una frase in “Bagliore”, una frase che vale tutto il tempo che abbiamo perso, “Era già una di quelle cose che hanno senso solo nell’attimo in cui accadono”.
Collini e Reverberi ovvero Spartiti arrivano oggi al primo disco, nonostante il progetto sia vivo e attivo da diversi anni, e riescono a confezionare un piccolo gioiello di storie, volti e fascinazione sonora, dritto a occupare un posto speciale tra le produzioni italiane di quest’anno: delicato e pungente, immerso in profondità malinconiche e sospeso tra il riso e il pianto con ineccepibile equilibrio, “Austerità” è il momento libero da prendersi per ascoltare, ascoltare bene e attraversare, come un novello mimo alle prime armi, un’infinita varietà di espressioni, tutte ugualmente vivide e intense.
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