Quadri, pennelli ed esoterismo. Liuto medievale, organetto, ney e flauto di pan. Tracce di sola voce riecheggiante, post-rock ed ethereal. Tutti i colori, intesi come gradazione di luce oppure come esperienze e sensazioni nascono dai sedici anni di carriera dei Corde Oblique. Il risultato è un'opera omnia, perché no, una colonna sonora con sfondo il Mediterraneo. Si parte dalla Campania e si tende, alla fine, a porgere la mano per poi abbracciare il Medio Oriente. Il mediterranean folk-progressive dichiarato da Riccardo Prencipe, mente di quell'orchestra, o meglio, di quella insenatura musicale tutta da esplorare di nome Corde Oblique, è un puzzle che forma e dà alla luce il sesto album della formazione: "I Maestri del Colore".
Quattordici tracce, dedicate quasi tutte ad una colorazione diversa, rappresentano alla fine ciascuna di esse una storia, un'atmosfera ed un'ambientazione molto spesso completamente diverse le une dalle altre. Dal punto di vista pratico Prencipe riesce, come ormai consuetudine nelle sue produzioni, ad accerchiarsi di tanti collaboratori dove ognuno dei quali rappresenta l'artista giusto per riuscire a disegnare alla fine la storia e lo sfondo cercato ad hoc per l'una o per l'altra traccia.
Si passa, ad esempio, dalla voce sacrale ed affascinante di Anna Madonna per canzoni come "Amara terra mia" (traccia solo vocale ad alto tasso di suggestione e sentimento verso le proprie origini), "A fondo oro" e "Rosa d'Asia" (con connotati lirici accompagnati da cordofoni, in stile Ataraxia) a quella di Caterina Pontrandolfo dove in "Il cretto nero" fa riecheggiare la parola sud accompagnata dalla decadente tromba di Charles Ferris dei Sineterra. Oppure, continuando, dai campanelli introduttivi di Walter Maioli degli Aktuala in "Giallo Dolmen", dove l'aria respirabile attorno alla tomba megalitica richiamata nel titolo è musicalmente descritta da una voce maschile rituale e strumenti aerofoni, alla partecipazione del Quartetto Savinio in "L'urlo rosso" con la riproposizione di un stato in crescendo di inquietudine tramite l'unione di viola, violini e violoncello.
Nella vastità di diversificazioni e sfumature presentate in "I Maestri del Colore" trova spazio, forse per la prima volta così chiaramente nella discografia dei Corde Oblique, un po' di rock. La motivazione principale è dovuta all'introduzione della chitarra elettrica sempre lasciata in secondo piano o inesistente nei precedenti album. Questa volta, invece, viene addirittura presentata nella traccia di apertura "Suono su tela" travestita da post-rock e folk-rock. Nella terza traccia "Violet Nolde" sembra poi esserci stata una fusione tra i Low, gli Anathema e i Siouxsie and the Banshees utile ad omaggiare il pittore tedesco Emil Hansen, abile a spostarsi durante la sua carriera artistica prima dell'impressionismo e poi dell'espressionismo. Se pennellate di rock sono presenti nell'apertura dell'album, come detto, un potente minuto e sette secondi di traccia finale lo persino chiude. In "Ghost track", si finisce con una scarica di stoner rock strumentale.
Difficile racchiudere e trattare in una recensione gli innumerevoli spunti musicali, dei testi, degli arrangiamenti e delle storie riprodotte in "I Maestri del Colore". L'invito, per i curiosi e per i sognatori, è quello di approfondire passo dopo passo, traccia per traccia, questo album. Magari nell'attesa, Riccardo Prencipe ci preparerà una nuova colonna sonora, un nuovo modo per soffermarsi sulle nostre origini e sulla nostra culla storica: il Mediterraneo.
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