Molto spesso i dischi che giungono tra le mani di un recensore rimangono nel lettore per il tempo necessario alla comprensione del lavoro, ovvero quella fase di studio e curiosità che in seguito dà forma alle idee, che infine divengono questi trenini di parole che trasportano il "senso" nella direzione di chi legge. Ma dopo che il testo diventa definitivo, quando si ha la sensazione di avere "capito" il disco, quest’ultimo ritorna nella sua custodia, e spesso succede che resti lì per molto tempo. Alcuni ci restano per sempre, non perché sono brutti, ma solo per il fatto che la loro "comprensione" (quasi nel senso di penetrazione dentro la materia) è stata difficoltosa, ed ha richiesto uno sforzo tale da sviluppare quasi un senso di rigetto. A di là se quello che si è ascoltato sia piaciuto o meno.
Succede qualcosa di simile a quando si prende una brutta sbornia con un certo tipo di bevanda e poi, per un po’, ne stai alla larga.
Altre volte però – queste sono le soddisfazioni di chi scrive di musica! – ciò che si ascolta riesce all’improvviso ad aprire la mente; le parole non vanno cercate, ma c’è solo da scegliere i pensieri più adatti tra il mare di sensazioni che l’ascolto riesce ad evocare.
Sono ormai tre giorni che nel mio lettore suonano di continuo i quattro brani degli Industria dell’Ozio. Avevo finito di scrivere la recensione già il primo giorno, ma oggi ho deciso di cancellarla e di riscriverla daccapo. Raramente è successo qualcosa del genere.
Ho deciso di farlo per un semplice motivo: mi sono reso conto che l’opera mi aveva dato molto, quindi anch’io mi sono sentito in dovere di dare di più.
In precedenza s’è parlato di come l’ascolto di una composizione musicale possa "aprire" la mente, ed appunto in ciò sta la grandezza del lavoro presentato dai quattro ragazzi romani, che hanno realizzato in tutto e per tutto un’opera psichedelica degna di questo nome.
Eppure non te l’aspetti. L’artwork del cd è minimale: nome del gruppo e brani su uno sfondo blu notte, nient’altro. Anche nelle note stampa traspare una semplicità e una modestia davvero degna di merito; inoltre non c’è nessuna traccia dell’auto-esaltazione tipica di chi vuole dare nell’occhio a tutti i costi.
Non te l’aspetti, e questo non fa altro che moltiplicare la sensazione di gradevole sorpresa che accompagna il primo ascolto.
Il primo passo che porta verso un mondo "fluido" e indefinito è Metamorfosi in volo, brano strumentale (così come gli altri tre episodi dell’ep) caratterizzato da cambi di tempo e di atmosfere – metamorfosi appunto – che sono l’anticipazione del tema ricorrente dell’opera, ovvero l’indefinito, che rappresenta l’unica costante dell’eterea e psichedelica dimensione degli Industria dell’Ozio.
Il sound è caratterizzato dal connubio acustico-elettronico nel quale il classico trio basso-chitarra-batteria è arricchito dai synths e dalle altre alchimie elettroniche di Marco Guglielmini.
La radice profonda dell’approccio stilistico può essere ricondotta al sound degli Ozric Tentacles, ma è opportuno precisare che le forme espresse dal quartetto romano tendono a prediligere composizioni più meditative. A mio avviso, inoltre, si potrebbe fare riferimento alle atmosfere più riflessive dei Tangerine Dreams, che risuonano anche in alcune timbriche dei synths.
Ma – a farci caso - sono numerosi "rimandi colti" che scorrono tra i mille rivoli sonori dai percorsi imprevedibili, come nel caso del finale della stupenda Asum confine della luce, che ammicca chiaramente all’impianto armonico "siderale" dei primi Pink Floyd.
Devo ammetterlo, sono ancora sotto l’effetto di dilatazione mentale di cui prima parlavo, e potrei andare avanti per molto con i links che mi flashano uno dopo l’altro per i pensieri, alcuni dei quali forse totalmente inesistenti, ragion per cui cercherò di limitarmi. Ad esempio nei momenti di schizofrenico free-jazz in Asum confine della luce vedo l’ombra delle esibizioni più sperimentali degli Area; in altri momenti i riff di tastiera sembrano tratti dal repertorio degli storici fraseggi di moog di Flavio Premoli della PFM. Ma sono molte altre le "intuizioni" inconfessabili…
A due anni dall’incisione dell’ep in questione (datato 2002), non si può far altro che auspicare un seguito a ciò che ha tutte le caratteristiche di un debutto alla grande.
Per il momento – da parte mia – consiglio vivamente l’ascolto di questa piccola perla del panorama musicale "non allineato", si potrebbe dire - mi si conceda il barocchismo - sui generis nello suo stesso genere.
Superfluo dirlo, ma se avete notizia di un loro live dalle vostre parti, non perdetevi l’occasione di farvi un viaggio psichedelico, di quelli che in bad-trip non si corre il rischio di finirci.
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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-09-27 00:00:00
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