“Game over, get up like a soldier” è l’incipit di “Quelli come me”, l’esordio discografico sulla lunga distanza di Marianne Mirage, e simbolizza un po’ tutto il resto del disco: una frattura labile tra la fine e un nuovo inizio. Non è un caso che “Excuse-moi”, uno dei brani migliori, si apra dicendo “c’est fini / oui cette foi c’est fini” (“è finita, stavolta è finita”). Il nuovo inizio invece sta in “Messi male”, che potrebbe essere il manifesto del 2000, tra l’instabilità e l’ossessiva importanza del denaro, che ormai compra pure la dignità. E a pensarci siamo davvero “nati messi male io e te”, ma almeno non abbiamo più niente da perdere e siamo pronti a ripartire da zero. E dev’essere un inizio a bomba pieno di energia, abbandonando false speranze e illusioni a favore di un realismo che non corrisponde più a pessimismo.
La personalità spicca forte nei testi che parlano di vita e d’amore: “la mia è una decisione di non restare più a guardare” (“Game over”), è il momento di prendere in mano le redini della propria vita e strattonarla da una parte all’altra, dove si vuole, ché uno quello che ha se lo deve scegliere. L’importante non è tanto fare le scelte giuste, quanto crederci davvero e non rimpiangerle: “io sono questa e non mi cambierei” (“Deve venire il meglio”). È la capacità di sorprendere e il coraggio di decidere per sé, sempre, perché “farò il contrario di quello che si aspettano” e potrò anche sbagliare “ma non mi pento e resto qui” (“Corri”) e comunque “se potessi scegliere un’altra strada non la cercherei” (“Quelli come te”), perché alla fine bisogna saper apprezzare quello che si ha. Ma l’espressione più chiara della nuova attitudine nei confronti della vita sta in “La vie”, perché “toutes les erreurs de mon passé ont renforcé ma vie”, insomma tutti gli errori fatti rinforzano e nessuno deve permettersi di giudicare (“personne ne juge ma vie”).
Musicalmente i beat costanti accompagnano lo stile soul della voce e creano un’alchimia di eccezionale originalità. I brani migliori restano quelli in francese, sullo stile di Zaho. Per apprezzarlo bisogna ascoltarlo più di una volta, ma quando ci si abitua alla lingua è un trionfo di ritmi coinvolgenti, beat, ritornelli e melodie che entrano dentro e scuotono tutto il corpo di una scossa inarrestabile. Ma “Game over”, “Deve venire il meglio” e “Messi male” sono esperimenti in italiano perfettamente riusciti. Ad arricchire il lavoro, già prezioso di per sé, e a definirne meglio la direzione, ci pensa la collaborazione con il rapper berlinese Elijah Hook in “Lo so cosa fai”.
Ovviamente non può essere tutto perfetto, è pur sempre un esordio, ed episodi come “Corri”, “Tu per me”, “Non serve più” o “Quelli come te” devono ancora trovare la propria dimensione musicale, risultano meno originali del resto del disco, anche se importanti concettualmente. Ma “deve venire ancora il meglio” e questo fa ben sperare, perché finalmente si ascolta una proposta nuova che guarda all’estero e porta in Italia uno stile, unico finora, che oscilla tra rap, soul, blues, jazz e rock. Se queste sono le conseguenze positive della multiculturalità, meglio non chiudere gli occhi e i confini, ma anzi arricchirsi di nuove tradizioni.
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