Ascoltai per la prima volta questi brani durante un live. In una fredda serata di fine marzo cosentino la band toscana si esibiva nell’area concerti allestita nell’ex mercato coperto dell’Arenella, sulle sponde del fiume Crati.
Per l’occasione c’era anche Carolina, o meglio mi raggiunse dopo la mia telefonata di “sollecito“.
Caroli’ sono davanti al palco, tu? Sono ancora a casa… ora mi vesto… tra un po’ arrivo. Dopo dieci minuti arrivò, ma non ne passarono altrettanti che si perse, tra saluti e “come stai?”, nella freddolosa folla che attendeva l’inizio del concerto.
Una volta sul palco la band iniziò ad eseguire molte delle canzoni - allora inedite - in seguito incluse in questo lavoro, le quali suonarono sin da subito familiari, scolpite con lo stesso stile che ha da sempre caratterizzato i Casa del Vento, o quantomeno l’impatto sonoro - sul piano della struttura come su quello degli arrangiamenti - è rimasto decisamente “fedele alla linea”.
Devo dire la verità, l’impressione che ebbi dei nuovi brani fu molto positiva, a tal punto che quando pochi giorni fa ho ascoltato “Al di là degli alberi”, ricordavo persino molti dei ritornelli.
Non è certo un caso se ho cominciato a parlare di questo disco partendo da un live. E la motivazione non sta nemmeno nel cogliere l‘occasione per “vendicarmi” amichevolmente con Carolina per avermi abbandonato sotto al palco, ma - come si suole fare nei romanzi - ho voluto seminare un “gancio” che sarà utile alla trama.
Ma poiché questo non è un romanzo e la piccola suspence creata fino a ora può anche bastare, giungo al (probabilmente scontato) colpo di scena: ora che riascolto gli stessi brani che qualche mese addietro mi avevano emozionato sembra che manchi qualcosa, sono come “mutilati” di qualcosa fortemente necessario.
Le liriche - tradizionalmente “politiche” - risultano appesantite da una retorica a tratti insostenibile. Sia chiaro, non è per il fatto che il disco sia profondamente “di parte”, anche perché - a mio parere - è persino dalla parte “giusta”!
Intendiamoci, queste sono canzoni “di lotta” vere e proprie, indissolubilmente legate ad una dimensione collettiva d’ascolto, ed è anche per questo che il live risulta l’ambito privilegiato. E’ un contesto nel quale l’emotività, o - se vogliamo - la passione, diventa quasi parte integrante dell’arrangiamento, inteso come cornice di definizione del brano. Quando si è invece nella dimensione più intima, si potrebbe dire “a freddo”, la connotazione dei brani può risultare notevolmente differente. Quando siamo lontani dalle danze, magari sul nostro divano ad ascoltare il disco, l’attenzione si focalizza in modo differente, più analitica, e si sofferma in maniera più attenta anche sulle liriche. In questo tipo di predisposizione si ascolta più con la testa che con il corpo, ed è quindi il lato “mentale” quello più avido, che pretende di più.
In questo caso però succede che - una volta lontani dagli alti wattaggi - le emozioni diventano incerte, intermittenti. Insomma viene fuori il lato meno appariscente dell’impalcatura.
I temi trattati sono i classici: dal no-war di Good morning Bagdad, carica di citazioni dei soprusi americani nel mondo, fino ai “fatti di Genova”; ma c’è spazio anche per ricordare Plaza de Mayo, come anche Rachel, la ventenne pacifista americana che perse la vita mentre manifestava per la causa palestinese. In Rachel and the storm è presente anche Elisa Toffoli, che attraverso il suo caldissimo timbro marca “a fuoco” questo brano: decisamente uno dei momenti più piacevoli.
Da segnalare anche la cover della Canzone del maggio dell’indimenticato Fabrizio De Andrè, episodio tutto sommato riuscito. C’è da notare però che una strofa risulta completamente differente rispetto alla versione del brano che appare in “Storia di un impiegato”. Probabilmente la strofa è ripresa da una delle canzoni del maggio francese, dalle quali il cantautore genovese prese spunto per il testo del brano in questione. Seppure lontano dal raffinato stile del Faber, “Se avete lasciato fare /ai professionisti dei manganelli / per liberarvi di noi canaglie / di noi teppisti, di noi ribelli” è stata reputata dalla band una versione più “esaltante”.
Onestamente non saprei attribuire un “verso” definitivo per questo “Al di là degli alberi”: pur rimanendo un disco tecnicamente valido e musicalmente curato, resta l’incognita della sua estrema prevedibilità; ma quest’ossimoro d’altro canto potrebbe essere considerato anche un dettaglio rassicurante per chi negli anni ha apprezzato lo stile dei Casa del Vento, e potrebbe essere giudicato persino un punto di forza per coloro i quali apprezzano che la band sia rimasta, anche coraggiosamente, uguale a se stessa.
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