Un album che parte bene, pur senza entusiasmare, per poi incagliarsi bruscamente in un dub reggae fuori dal tempo.
Davide Barca, anima, cuore e ritmo del progetto Full Vacuum presenta "Dìa-Luz" con una gallina urlante e sotto shock in copertina e un'introduzione musicale che ripete tra ululati e schiamazzi "sono una forma di vita". Niente male per attirare l'attenzione. Ma è con la seconda traccia "Mosca Nera", che finalmente inizia quello che (ci) aspettavamo fin da subito: ritmi tra il tribale e la patchanka accompagnati quasi sempre da una doppia voce sfalsata sulle tonalità. Timide ma coscienziose le escursioni vocali, che ricordano un po' il Neffa degli anni '90, con il cantante che preferisce accompagnarsi ad altre voci quando non alle chitarre per dare corpo alla parte cantata piuttosto che avventurarsi in territori sconosciuti; questo diventa evidente in "Assai", dove fa la sua comparsa la voce femminile di Sandra Ferretti sullo sfondo.
A livello compositivo e musicale il sestetto di Davide Barca si destreggia bene, e si evince senza sforzi che il gruppo è affiatato e navigato, e riesce a tradurre le svariate influenze personali in un qualcosa di coerente, senza voler essere originale a tutti i costi ma piuttosto concentrandosi sull'essenzialità. La scoperta e la presa in prestito di contaminazioni delle più disparate prosegue in tutto il disco, rispolverando senza nasconderlo troppo il sempreverde Manu Chao in tante occasioni. E fin qui niente di male, tutt'altro.
È nella seconda parte del disco, a partire da "Suona", che il disco si trasforma inspiegabilmente in un dub reggae che ricorda molto quello portato in alto tra gli anni '80 e i '90 da gruppi come Africa Unite e Sud Sound System, esempi inarrivabili certo, ma anche abbastanza lontani nel tempo. In "Arrivederci e Grazie", arriviamo a sentire addirittura un "fumo marijuana e sono un altro pianeta" di cui tanto poco sentivamo la mancanza, e salvo improbabili intenti citazionistici, sembra proprio che i Full Vacuum siano scivolati goffamente indietro nel tempo, quando forse queste parole potevano trasmettere un messaggio meno autoparodico. C'è spazio infine anche per un brano cantautoriale, "Mille Volte", ma se in tutto il disco senti la necessità di avvalerti della doppia voce, forse quello del cantautorato è uno spazio in cui è meglio non addentrarsi. Un altro brano ed un outro a chiudere il cerchio; sullo sfondo sempre Neffa, gli Africa Unite e loro affini: artisti che sicuramente i ritmi in levare li conoscono bene e negli anni li hanno saputi valorizzare al meglio, ma allo stesso tempo tutti appartenenti a un'altra generazione e quasi tutti già usciti di scena da un bel po'.
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La recensione Dìa-Luz di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-09-27 00:00:00
COMMENTI (2)
recensione un pò limitata e deludende in linea con il background musicale di chi la scrive ripetere il classico neffa e gli altri, è semplicemente chiudersi in una gabbia, l'invito è quello di aprire la mente e riconoscere le sonorità latino-americane e altri collegamenti che il nostro critico non ha saputo trovare, aimè direi disco per palati fini se non li avete meglio che non parlate, rischiate di cadere negli stereotipi e nel grossolano.
recensione un pò limitata e deludende in linea con il background musicale di chi la scrive ripetere il classico neffa e gli altri, è semplicemente chiudersi in una gabbia, l'invito è quello di aprire la mente e riconoscere le sonorità latino-americane e altri collegamenti che il nostro critico non ha saputo trovare, aimè direi disco per palati fini se non li avete meglio che non parlate, rischiate di cadere negli stereotipi e nel grossolano.