Cuori tristi. Inevitabilmente spezzati. Arcobaleni nero carbone, lacrime, cocktail di latte e sangue. L’oscurità che avvolge, la paura, quella di vivere, da esorcizzare: ”No one is free, nobody wants to be free”. “A beat of a sad heart” è un disco saturo di rabbia, di disillusione, di disincanto. Nell’arco di sei toccanti canzoni, Antonio Vitale, in arte Jester at Work, prova a dispiegare il suo nuovo manifesto programmatico, realizzato attorno a “musiche e testi che vengono dal cuore e in esso ritornano”.
Il musicista pescarese ha alle spalle un percorso artistico di tutto rispetto. I suoi anni ’90 girano attorno ai Warm Morning 616, hard rock a manetta con influenze southern, poi la band si scioglie e all’improvviso irrompe il lo-fi, il nuovo orizzonte verso il quale volgere lo sguardo. Un paio di album scarni ed essenziali (“Lo-fi, back to tape” e “Magellano”) servono a mettere in piedi quello che verrà, ovvero uno psyco-folk imbastardito da illuminazioni blues e ricercatezze country: nient’altro che l’essenza di “A beat of a sad heart”. Dove riescono a convivere il tormento di Mark Lanegan, lo spessore di Tim Hardin, l’umore depresso di Smog. Al netto di un song-writing maturo e consapevole, figlio di architetture sonore audaci (a testimoniarlo ecco il blues sporco di “People lie” o le reminiscenze acide dal vago sapore di Led Zeppelin acustici di “Bold”), mai scontate, sofferenti, certo, ma non prive di momenti più brillanti (“Lighthouse man”).
Jester at Work si (ri)mette in gioco con un disco che riesce a uscire fuori dagli schemi, buio quanto si vuole ma pur sempre pronto a emettere raggi luminosi che scaldano offrendo certezze a piene mani. Succede spesso quando ci si imbatte nella bellezza. Nella bellezza di certi suoni, o nella bellezza di questa manciata di canzoni.
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