Nuovo nome per Gioele Valenti. Pochi mesi dopo l’uscita del disco di Herself (“Gleaming”, in collaborazione con i Laissez Fairs), eccolo con un altro album e un altro progetto, JuJu. E ancora una volta il livello è molto alto. La scrittura di Valenti è intatta nelle sue caratteristiche di base: polvere, penombra e melodia. Nelle intenzioni di Valenti, JuJu è la presa di coscienza di un artista di fronte a un Mediterraneo che diventa campo di battaglia senza vincitori ma stracolmo di vinti. Ecco perché JuJu estremizza sonorità e prospettive, con il folk che lascia spazio a uno sperimentalismo a metà tra Africa e Illinois, un po’ tribalismo e un po’ avanguardia. Soprattutto ci sono rocce, spigoli, onde e tempeste, un approccio energico ed essenziale assai lontano dal songwriting acustico e lo-fi di Herself.
“We Spit on Yer Grave” è shoegaze da corsa infinita, un pezzo sinceramente bellissimo, qualcosa di vicino ai Diiv ma con un suono meno leggerino e più potente. “Stars and Sea” sorprende per la frattura rock che spacca in due un brano e lo allontana dall’atmosfera psichedelica iniziale, decisamente e fieramente terzomondista. “Dance with the Fish” è uno splendido post rock pianistico alla Mogwai, mentre “Lost” è una lunga canzone che si poggia su ritmi sostenuti e riff ossessivi di chitarra, con la voce in sottofondo che è un mantra disperso tra i riverberi. Sembra insomma emergere molta indignazione in questi brani di JuJu: è lo sconcerto di chi guarda l’apocalisse di un continente che muore (l’Africa) e di un gruppo di Paesi che fuggono in ordine sparso dalle proprie responsabilità.
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