"Pulvis et umbra sumus" (Orazio, Odi VI): Memoria e tempo, uomo e animali, Polvere e Ombra. Una sincera opera di recupero e restituzione all'uso di musica e personaggi dalla valle dell'Eco.
"Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti”.
Così il rapsodo sussurra calpestando la terra crepata dal sole con una serpe a bardargli il collo, mentre tende l'orecchio e aspetta che "monti et piagge et fiumi et selve" gli rispondano "fermati qua". Ci si è fermato su quella terra crepata, Vinicio Capossela, e l'ha incisa in 28 tracce che, tra "Polvere" e "Ombra", disegnano il sentiero delle "Canzoni della Cupa".
"Chiedi alla polvere”, scriveva John Fante nel 1939. Ché dalla polvere della valle dell'Eco, invocata ed esaltata da una ricerca strumentale imponente, risorge l'ancestrale, bagnato da serenate "a dispetto" e ballate, da cori grattati, cantilene e discanti rudi e sgraziati. Dalla polvere risorge la mitologia contadina di Capossela, seccata al sole su una terra dove si poggia una guancia che ricorda l'Ohio di Anderson – è l’algia verso una terra dove non si è vissuto, per una radice epica che ci si è sempre portati appresso – e un’altra in cui si specchiano le afflizioni paesane di Matteo Salvatore.
La prima sezione è rimpinguata infatti di riletture del cantore di Apricena, da "Nachecici" (I Maccheroni) a "Rapatatumpa" (Proverbi Paesani) fino a "Lu furastiero", "La notte è bella da soli" e "Il lamento dei mendicanti", blues dantesco in cui la litanìa accompagnata da violino e contrabbasso racconta la vita mesta delle "anime del purgatorio", che girano in tondo come pezzenti a cercare il pane perché "i figli hann' a mangiare". La vita degli ultimi, dei vagabondi, dei mendicanti è uno dei temi di tradizione della canzone d'autore da Dylan a De André, ma anche di quella letteratura e di quella musica di frontiera a cui il pangermanico è da sempre affezionato.
In mezzo c'è la metrica popolare di "Sonetti" - "il verso versa e toglie alla morte chi viene cantato", scriveva Capossela nel 2011 - la cui cadenza dinoccolata invoglia a inarcare spalla e ginocchio assieme alle sillabe che si piegano a ritmo di tacco e strisciate di punta. In mezzo ci sono le tabacchine di Patù, "Maddalena la castellana", la "Rondinella", "Dagarola del Carpato" (sontuosi i cori di Giovanna Marini) e "Franceschina la Calitrana", una per forza promessa a Vituccio se muore Liberto, l'altra per voglia appresso ai manovali che costruiscono la ferrovia (eccola di nuovo, la frontiera). E magari dietro le ferraglie – ora arruginite – Franceschina ci ha trovato "Pettarossa" la puttanazza, "caduta sotto il ginestrale". Sopra tutte troneggia "La padrona mia", con cui il rapsodo si vuole arricchire il cuore.
Dalla “veste nuova” che sfoggia nella masseria si spande la polvere dei campi messicani – in formazione anche i mantici e le corde doppie dei Los Lobos – l'umidità che si stipa sotto ai cappelli di mariachi, la canicola che incendia le giornate di raccoglitori di grano, di schiavi del Kentucky o di cowboy dell’Arizona.
“Ombra” invece è la musica sotto la terra e dietro gli alberi, che del giorno sono le stelle e di notte, al buio della Cupa, ticchettano col vento e ospitano l'orrorifico carnevale degli animali: la volpe, le quaglie, il lupo, il mulo, la lepre, la staccia, il toro, la crapa, l'oca, il Pumminale, il porco maiale. Ecco il bestiario caposseliano, posticcio, metafisico e metaforico, ctonio, dove le bestie nel grano sono le inquietudini dell'uomo, gli spiriti che lo invadono mentre si perde nei passi astrali degli organetti, nei ragli alla luna, negli archi urticanti e nei versi inquietanti che pregnano l’anima. La notte per il rapsodo è ricca di presagi e comparizioni, figure mitiche, sacre e pagane come il maranchino, l'angelo della luce Michele e "Componidori", maschera androgina che rovescia la terra nella festa della Sartiglia, tradizionale crociata carnevalesca di Oristano.
Il rapsodo ha battuto i campi arsi alla Controra – il demone meridiano, l’ora immota di Fedro in cui comincia il flusso divino che impossessa l’uomo e "apre la porta al mondo di là" – è sopravvissuto con l’anima rotta all'incanto notturno delle arpie Masciare e se ne ritorna al treno. Quello che c’era, quello che si è sognato, quello che non c’è più. La musica all'Ombra è oscura e stridente, arrivano i cembali, i pedali, il baglamas e gli zoccoli a creare il sogno nero di Capossela. Nell'ultima traccia il ritmo si fa battente, a evocare lo sbuffo delle rotaie che riecheggiano un tempo fermato troppo presto.
Si dice che "se non è mai stata nuova e non invecchia mai, allora è una canzone folk": della terra dei padri Capossela ha già restituito parole di carta, immagini e fotografie. Mancavano la musica e i musicanti. "Canzoni della Cupa" è un disco sull'uomo e la sua natura duale - il "pulvis et umbra" oraziano - una sincera e sacrosanta opera di recupero e restituzione all'uso, una ricerca durata 13 anni che affonda mani e piedi nell'humus dei Coppoloni e ne risputa le melodie folk, la lingua pastosa, le storie e i personaggi, riottosi Americani di Rabbato a braccetto con Eco lungo i viali battuti dal sole e dal tempo. È un circolo che si chiude, partito dalle quatriglie, cinquiglie e sestiglie dell'Occhino di "Al veglione" e ritornato in piazza a Calitri, dove le fisarmoniche impazzano, i piatti vibrano, i cubba cubba gorgogliano e a forza di "zu-zu-zu" si consuma il ballè che sponza come baccalà. È il ricreo, è un ritorno a una terra da cui non si è mai andati via, dove siamo sempre stati ma ce lo siamo dimenticati.
E allora falcia falcia mietitore, allungati la strada e tornatene a casa.
---
La recensione Canzoni della Cupa di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-05-16 00:00:00
COMMENTI (2)
Uno dei peggiori dischi di tutti i tempi
Uno dei peggiori dischi di tutti i tempi