Un disco di cover che fa dell'approccio freak e anticonformista la sua ragion d'essere. E che vince la scommessa alla grande!
Stiano alla larga da questo disco tutti coloro che, di fronte ad una raccolta di cover, ammettono solo approcci ortodossi. Meglio giocare d'anticipo per evitare equivoci di sorta, visto e considerato che il progetto Discoverland fa dell'approccio freak e anticonformista la sua ragion d'essere.
Tutt'altro che nuovi di fronte a questa pratica, Pier Cortese e Roberto Angelini selezionano 9 canzoni famosissime, cambiandone completamente i connotati, come già successo all'epoca dell'esordio omonimo del 2012. Tocca all'accoppiata "I still haven't found what I'm looking for" / "Lucy in the sky with diamonds" aprire le danze all'insegna di un arrangiamento che sfrutta il canovaccio del genere country; non si pensi però a sterili riletture che provano a fare il verso a Johnny Cash degli anni '90/'00, perché mai impressione fu più sbagliata. Non si tratta infatti di solo country, bensì di una miscela musicale che da lì prende lo spunto e poi si trasforma in un arcobaleno musicale che, nella canzone degli U2, si trasforma quasi in un gospel (non a caso si chiude in bellezza con un medley di "Somebody to love" dei Queen), mentre il pezzo dei Beatles si caratterizza per un epilogo a metà tra elettronica e psichedelia.
Il capolavoro però lo compiono con "The drugs don't work" dei Verve, reinterpretata in una chiave che ricorda moltissimo il sound dei Daft Punk. Da qui in poi abbandonano momentaneamente ogni riferimento al country, optando per un blues sbarazzino nel momento in cui scelgono di rileggere "Stayin' alive" (e stavolta il riferimento è Beck, quello della colonna sonora di "A life less ordinary").
L'altra grande scommessa del lavoro è "La cura" di Franco Battiato, di fronte alla quale in pochi raccoglierebbero il guanto di sfida; il duo, invece, si inventa un arrangiamento à la Jack Johnson e sorprende ancora per la scelta. Copione quasi identico per "L'isola che non c'è", con la differenza che anche qui, nel finale, trova spazio una geniale citazione di "Clint Eastwood" dei Gorillaz.
Ma non è finita: rimane da raccontare della versione hippie di "All apologies" dei Nirvana, riletta con in testa "Norvegian wood", e dell'ultima scommessa che risponde a "Killing in the name", canzone manifesto dei Rage Against The Machine ripresa al rallentatore con un arrangiamento nuovamente country - inutile dirvi che, anche in questo caso, l'esperimento funziona benissimo.
Peccato solo per l'unico inedito della coppia, intitolato "Il pusher": presa singolarmente non è neppure una brutta canzone, ma in un disco di cover di questo livello purtroppo non c'azzecca nulla. Ciò non vada comunque a discredito del progetto, che, al contrario, ha conquistato la nostra stima e i nostri ascolti.
Scommessa vinta, in definitiva, senza dubbio alcuno.
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La recensione Drugstore di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-07-05 00:00:00
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