Il tragico calore che accarezza le fredde rovine dell’esistenza.
La seconda creatura sulla lunga distanza di Silent Carnival altro non fa che sospingere verso più elevate vette di maturazione stilistica quanto di buono (di ottimo, anzi) era già stato seminato con l’omonimo esordio di due anni addietro, meritandosi già soltanto per questo un doveroso attestato di stima. Sì, insomma, al buon Marco Giambrone è bastato il minimo sforzo per raggiungere il massimo risultato, semplicemente caricando di maggior solennità narrativa e orchestrale quel già abbondantemente torvo groviglio emotivo in soluzione dark-folk che permeava la sua opera prima (tanto per ripassare riascoltatevi “Restless love”, “A Process” o “Gare du nord”).
Il chitarrista dei Marlowe persiste nel suo approccio catastrofista al songwriting – tra Robert Smith e Ian Curtis – veicolando stati d’animo intrisi di disagio, frustrazione, auto isolamento e disintegrazione emotiva (”I never choose to live my own life / My head explodes in random worries / I follow them into the abyss”) ma dirottandolo verso più litaniche derive spirituali che per certi versi potrebbero avvicinarlo a un Nick Cave o un David Tibet in trance meditativa (vi bastino gli estremi del disco “Across the ocean” e “Sick”).
Un folk, sì, funereo ma estremamente liberatorio, quello del musicista siciliano, che deve tanto ai Current 93, per la sua spesso vana ricerca di appigli e vie di fuga esistenziali, quanto agli Swans, per la sua cupissima ritualità esecutiva, ma che ciononostante non rinuncia a soluzioni più personalizzate, per merito anche della nutrita schiera di collaboratori guidata da Carlo Natoli: “A place” dissotterra umori folk-prog settantiani addolcendoli con la stessa raffinatezza spettrale dei già citati Current 93, “Drifting” rimodula visioni joydivisioniane su più dilatate frequenze, la sghemba incursione mistica di “Flood” – che la voce di Carla Bozulich magnetizza come una sirena di Ulisse – tratteggia plausibili aldilà, mentre le struggenti tinte liturgiche, più marcatamente neofolk, di “Last dream of a tree” potrebbero suggestivamente sonorizzare il nostro congedo dalla vita terrena, il più tardi possibile, certo.
E siccome l’inverno si avvicina inesorabile non ci rimane altro che anticiparne la sublime essenza addentrandoci tra le fredde rovine di questo disco e godendo del tragico calore che le accarezza (”All along the ruins / Perfect shadows / Now winter comes / It’s getting colder”).
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La recensione Drowning at low tide di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-10-14 10:00:00
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