Il blues nell'epoca della sua riproducibilità tecnica: un disco perfetto, anche troppo, che imita il blues, svuotandolo un po' di autenticità
C’è una cosa di cui mi rendo conto sempre di più nella mia vita da musicista: il progresso tecnico non potrà mai sostituire l’atmosfera. Per atmosfera intendo quella sensazione che si avverte quando si ascolta una canzone e la si percepisce come un atto unico e inequivocabile che sta accadendo in quel preciso momento. Naturalmente prima dei dispositivi di registrazione, la musica era solo questo, un atto unico e irripetibile ogni volta diverso. Ma anche con l’avvento delle registrazioni, è stato possibile catturare su nastro l’atmosfera di una canzone. Ad esempio, nelle prime registrazioni di Robert Johnson o nei primi album di Bob Dylan. In questi casi si ha la percezione distinta di ascoltare dei brani che catturano il momento, costretti in quella specifica forma solo per quella occasione, come se qualcuno li avesse registrati di nascosto, a insaputa dei musicisti.
Il problema di Spookyman è il contrario. Paradossalmente, se questo disco fosse stato registrato male, sarebbe stato quasi un capolavoro. Invece la cura maniacale dei suoni e la pulizia generale dell’album contribuiscono a renderlo soltanto un insieme di composizioni di maniera che emulano uno stile, il blues. Il succo del discorso è tutto racchiuso nella copertina dell’album: un collage che riprende lo stile di molti dipinti a tema blues, ma che al posto di essere un dipinto vero e proprio, è una foto deformata in un dipinto.
Allo stesso modo, il nostro eroe ha ripreso tutti gli stilemi musicali del caso, svuotandoli però di significato e affibbiandogli una patina “fighetta”, che manca di autenticità. Per carità, la messinscena è perfetta, con suoni lucidi e alchimie perfette. Ma resta sempre una messinscena. Ad esempio, prendiamo “Friendly Woman”: è un perfetto electric-blues che avrebbe potuto essere suonato anche da Howiln’ Wolf. Eppure non c’è la magia. Spookyman ha preso il blues e lo ho spogliato di tutta la sporcizia e il punk che c’erano di mezzo. Tra l’altro, sarebbe bastato replicare in presa diretta in studio il lavoro enorme che fa dal vivo (è un one man band che suona contemporaneamente chitarra, cassa, rullante, kazoo e armonica) per rendere il tutto più autentico. Certo, ci sono anche delle trovate niente male: il primo singolo “Bad Things” ha un giro insolito, con un leggero retrogusto di oscurità, mentre “Remember Rain” è un interessante miscuglio fra le atmosfere mediterranee e quelle del Delta del Mississippi. Ma manca ancora un po’ di anima. C’è anche di mezzo il fatto che né io né Spookyman né il suo pubblico siamo nati nel Sud degli Stati Uniti a inizio novecento, ma questo è un altro discorso. Il problema è sempre un altro, quello dell’autenticità. Perché è più bello ascoltare un disco blues degli anni ’60 e non uno del 2017? Perché quella era la musica degli anni ’60. Riproporre lo stesso stile ai giorni nostri, quando (ahimé) in pochi ascoltano il blues, e farlo con i mezzi tecnici che ci offre il presente, non può che essere un’imitazione.
E a volte non c’è spazio per le imitazioni nel cuore di chi ascolta.
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La recensione SPOOKYMAN di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2017-04-05 00:00:00
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