L’abuso del concetto di indie rock si presta sovente a generare una certa confusione semantica in grado di disorientare tanto l’ascoltatore quanto il musicista. Perché è senza dubbio un contenitore capiente e proprio per questo non ha un contenuto. Può averne infiniti, anche se non ne identifica alcuno. Forse è la genericità intrinseca al termine stesso che spinge molti a scambiare una forma, ovvero un certo modo di fare e produrre musica, per la musica in sé. Ma se ritenete che le parole siano importanti tanto quanto le note, dovrete scartare l’involucro per tentare di capire, avendo cura di collegare le orecchie ad un cervello funzionante.
Questi ed altri sono i pensieri che partorisco mentre tengo tra le mani l’ultimo demo degli aKemi, giovane band emiliana nata a Bellaria (RN) nell’ottobre 2002 come sintesi di esperienze musicali eterogenee (grunge, funky, blues, noise, cross-over, garage). Leggendo la lettera di presentazione allegata al CD scopro che i quattro membri del gruppo si autoetichettano come autori di sonorità indie rock sperimentali. Non mi resta che sbirciare dentro la scatola.
Ipnotica, ne esce “Gern”: ossessiva la ritmica, voce calda che accosta tedesco ed inglese in un lamento semplice ma poetico. Ed è subito “The box”, con intro simil-Muse, dove il cantato ti fa pensare in certi momenti ad un Michael Stipe un po’ fiacco, tenuto su a forza dalle bacchette agili di Roberto Parma (batteria). Segue “Still life”: natura morta dotata di un buon equilibrio compositivo, anche se non poco appesantita da cori che tentano di raggiungere le alte vette, rischiando pericolosamente di cadere portandosi dietro tutto il resto. “Zonk” è tutta tastiere ed effetti vocali, questi ultimi a tratti fastidiosi (credo sia chorus al massimo livello, ma potrei sbagliarmi), ma migliora nel finale, grazie all’esplosione di energia di chitarra e batteria, che irrompe provvidenziale come ossigeno in una camera a gas. E poi “Tick tack”: intro chitarra-basso-batteria di ispirazione fortemente marleniana, voce più che acida (e concedetemelo: così effettata, rasenta la cacofonìa), ritmica pulita e semplice. Con “Goldfish” ritorna infine l’avvolgente voce iniziale, così piacevolmente modulata in stile Eddie Vedder (lo scrivo, anche se suona come una bestemmia…) a chiudere in bellezza un lavoro nel complesso non proprio originale ed armonioso. A mio parere, questo è l’unico brano in cui gli aKemi dimostrano di avere intravisto il sentiero della sperimentazione. Da non confondere con certe scorciatoie tanto affollate quanto spersonalizzanti. Perché davanti ad un bivio, nell’indecisione, conviene almeno saper distinguere un’autostrada da una mulattiera.
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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-12-06 00:00:00
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