Corpo di mille balene! Il marinaio Thomas Guiducci torna all’arrembaggio del blues con “The True Story Of A Seasick Sailor In The Deep Blue Sea”, il suo dissipatissimo secondo album dopo l’esordio autoprodotto di “The Heart And The Black Spider” del 2012. In questa fatidica seconda prova il cantautore torinese si cimenta con l’universale, affrontando con toni da opera rock (anzi, blues) la tematica senza tempo del marinaio col mal di mare, sperso in una vita misteriosa come gli abissi più profondi e all’interno della quale la ricerca di un senso diventa sempre più impossibile. Si tratta di quanto già raccontato da Conrad ne “La Linea D’Ombra”: l’avventura marinaresca come metafora di quel sentimento di malessere che ci coglie tutti, prima o poi, nel mezzo del cammin di nostra vita. Guiducci, però, getta in mare penna e calamaio (non del tutto però: l’opera è infatti arricchita da quattro racconti e da una serie di immagini) e si misura con l’argomento a colpi di chitarra, sia acustica che elettrica. L’album, infatti, sembra essere diviso in due parti: la prima acustica, la seconda distorta, seguendo un processo speculare che ricalca le orme di quanto già mostrato al mondo dal buon vecchio Neil Young sul finire degli anni '70.
In ogni caso, i modi di Guiducci sono quelli del cantastorie che non esita a fare rifornimento nell’ampio repertorio cantautorale nordamericano. A stare in prima linea, infatti, è sempre il blues, a volte scanzonato, a volte oscuro. Eppure Guiducci esalta questo genere non tanto nella sua natura musicale (dimenticate i vari Clapton e Hendrix), quanto nella sua dimensione narrativa, trattandolo come un tappeto sonoro su cui srotolare il racconto esistenziale del protagonista. In questo il nostro marinaio sperduto si avvicina ad una attitudine autoriale di spessore, viaggiando spedito verso i vari Cohen, Dylan e Young, ma con Tom Waits come compagno di bordo. E infatti, quel grattato sussurrato della voce non può che essere un tentativo di rievocare le atmosfere del cantautore canadese.
Ecco, le atmosfere: in “The True Story of a Seasick Sailor In The Deep Blue Sea” tutto è soggiogato alla ricerca spasmodica dell’atmosfera, ed è proprio questo a rendere l’album un’opera rock riuscita ed evocativa. Certo, non mancano anche pezzi che presi singolarmente fanno un figurone: da “This Is Not A Love Song”, che per quanto abbia lo stesso titolo di un pezzo di Johnny Rotten non c’entra niente col punk e va a parare verso i territori dei Rolling Stones di fine anni ’60 (vedi “No Expectations”), a “Mrs Hope”, in cui l’ascendente che il british rock esercita su Guiducci si esplicita in un riff a metà fra il garage e l’hard rock. E poi “Seasick Sailor”, arricchita da un clarinetto di dalliana memoria e da trombe che sembrano uscite dritte dritte da “Blonde On Blonde”, e “Hangover Song”, che farà saltare molto il pubblico nei live. Altra menzione d'onore è per il pezzo conclusivo “The Magpie”, ballatona malinconica a metà fra la dolcezza acustica degli Stones (sì, ancora loro) e quel superomismo intimo alla Jethro Tull che la trasforma in una sorta di preghiera.
Quello di Guiducci è un grande album, non tanto per la sua attualità o per la sua freschezza (alcuni potrebbero dire che è un disco anacronistico e scontato), quanto per la sua dimensione autoriale. Con “The True Story Of A Seasick Sailor In The Deep Blue Sea” si può finalmente ritrovare la magia di ascoltare un racconto e di perdercisi dentro, come soltanto con i grandi libri accade. Perché ogni storia parla sempre di sé ma anche di qualcos’altro, perché l’uomo è sempre uguale a se stesso e perché si può ancora cantare di navi e marinai e parlare, tutto sommato, comunque di noi.
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