Un tributo, un omaggio, un atto d’amore. È un disco, questo, nato allo scopo di celebrare la canzone d’autore italiana e per reinterpretare alcuni dei suoi episodi senza distinzioni (oops...) di casta, mettendo da parte quelli che possono essere i riferimenti colti e confondendoli con gli altri, gerarchicamente indirizzati verso il basso. Per Stefano Giaccone e Mario Congiu non è stato un problema abbattere le barriere. Le dodici tracce di “Una canzone senza finale”, sono state inserite nel medesimo contesto, con il proposito di far convivere la sacra triade De Andrè/De Gregori/Guccini, i venerabili Tenco, Fossati e Jannacci, un’amica di lunga data che risponde al nome di Lalli, nuove leve come i Perturbazione ed i perfetti sconosciuti (almeno ai più) Truzzi Broders e Paolo Manera, aggiungendo al tutto anche due pezzi autografi. Avere il coraggio di mettere insieme tali e tante diversità, può essere interpretato come un segnale in grado di sancire un principio a dir poco importante: la musica italiana appartiene ad una realtà in divenire, solo apparentemente ferma in una comoda, ma a quanto pare inesistente, staticità. Tra mostri sacri ed esordienti, Giaccone e Congiu si sono mossi usando quantità industriali di semplicità, senza far ricorso a stravolgimenti di sorta, con la parole d’ordine di rispettare le canzoni originali. Ed il valore aggiunto di interpretazioni sentite ed a tratti sofferte, alle quali viola e violino offrono un’opportunità in più (ascoltare l’emozionante “Vedrai vedrai” per credere), con il rock come scusa per vivacizzare le cose e fornire il titolo all’album (“Canzone senza finale” è una frase tratta da “T’ho visto in piazza” dei Truzzi Broders). Tutto molto bello, anche per la scelta spesso spiazzante di un repertorio non legato alla notorietà dei pezzi, ma teso a privilegiarne la qualità. Come testimonia la cover di “Il monumento”, splendido inno antimilitarista firmato Enzo Jannacci.
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