Per quanto spazio-temporalmente ben localizzabili le creazioni strumentali di J.H. Guraj tratteggiano in realtà un inafferrabile altrove che sembra perdersi nella notte dei tempi. Già, perché per quanto il buon Dominique Vaccaro (J.H. Guraj è solo uno pseudonimo) abbia voluto trarre candidamente ispirazione dalla comunità albanese radicatasi ormai secoli addietro a Firmo – suo paese natale nell’entroterra cosentino – le sue composizioni in fingerpicking evocano a meraviglia le sfuocate atmosfere rupestri di un’America perduta o forse soltanto immaginata sfarinando con le mani le zolle dell’Appennino calabro.
Una chitarra elettrica in solitaria, dunque, come collante immaginifico tra due splendide fette di mondo e motore di uno stream of consciousness in slow motion che parte dall’American Primitivism di personcine come John Fahey, Robbie Basho, Peter Lang o Leo Kottke per sviluppare una personalissima narrativa su 6 corde, spartana e mono-umorale, satura di country-blues scheletrico, fragranze cinematografiche, slanci improvvisativi e persino velate concessioni a quella musique concrète che caratterizzò a suo tempo i suoi esordi musicali (i defilati rumorismi ambientali sparsi qua e là che vanno a impreziosire i paesaggi musicali).
Un progetto lo-fi che, a suo modo, quasi lambisce le sponde contemplative del post-rock e che racchiude in piccole gemme come “Oh, night” e “I don’t belong here” i suoi momenti più alti. Consigliato vivamente agli appassionati del genere e a tutti quei sognatori che alle stelle cadenti preferiscono pietre roventi e terra polverosa.
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