Ci sono diversi tipi di dischi d'esordio. Fra questi, c'è quello della band alle prime armi, che riversa le esperienze fatte in sala prove e nei primi concerti, e c'è quello dell'artista che raccoglie anni di composizioni, concerti, viaggi e collaborazioni.
È chiaro fin da subito che nel caso di "Saltworks" si parla della seconda tipologia.
Fin dalla traccia d'apertura si sente la cura nel bilanciamento fra gli strumenti e la voce, sia nei volumi che nella composizione. Musica e cantato si alternano in primo piano mescolando influenze e stili diversi creando un album che tende a sfuggire dalle tradizionali etichette dei generi musicali.
Difatti ci sono pezzi più folk, come "Rilke", e altri che richiamano la psichedelia, come "Veiled Sun", ma ciò che prevale è l'armonia sia all'interno che fra le canzoni che compongono l'album. Tutto ciò si sviluppa su un'ossatura di base: un canovaccio folk su cui Claudio Conti ha ricamato i suoi pezzi che, seppur a tratti simili, non annoiano e rendono l'ascolto dell'album leggero e scorrevole.
Questa ricchezza di sfumature è proprio ciò che distingue, generalizzando un po', questo lavoro dalla prima tipologia di disco d'esordio sopracitata. Ulteriore conferma è data anche dai testi, e non perché sono scritti sotto forma di poesia.
Quest'ultimi completano le musiche alla perfezione senza creare contrasti; trasmettendo molto bene l'idea di un viaggio introspettivo, nel quale l'artista vuole accompagnarci in maniera discreta, senza strattoni.
Forse non sarà un disco trascinante al primo ascolto, ma questo non va a inficiare la qualità di un lavoro ben fatto sotto ogni punto di vista che risulta gradevole da ascoltare anche più di una volta.
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