Con un disco a metà strada tra la terra e il cielo Clap! Clap! riscrive il concetto di world music a suon di footwork, house e drum and bass.
Se “Tayi Bebba” rappresentava l’essenza stessa della terra, la sabbia rossa africana trasportata chissà dove dal vento, “A Thousand Skies”, il nuovo album di Clap! Clap! per l’inglese Black Acre, ci fa staccare lentamente gli occhi dal telefono e alzare lo sguardo verso il cielo. Parte “Discessus”, brano d’apertura, e un lamento di vedova si alza solenne da terra, per trasformarsi in una danza celeste. È l’ideale congiunzione tra le due dimensioni, un per aspera ad astra che risuona come un mantra: le asperità conducono alle stelle e Cristiano Crisci, che ne ha fatta di strada sin dallo pseudonimo Digi G’Alessio, ha trovato la formula per trasformare le emozioni del lavoro precedente in un secondo disco stellare.
Basta ascoltare la successiva “Nguwe”, in compagnia del sudafricano Bongeziwe Mabandla, per cogliere il senso del discorso: 170 bpm di puro coinvolgimento su cui danza lo spirito di un canto senza tempo, rivolto a un’entità naturale in quell’impasto “future roots” che ormai contraddistingue il producer fiorentino.
Alla faccia delle più disparate forme di Brexit e muslim ban che dividono tristemente i quattro angoli del pianeta, i mille cieli di Clap! Clap! trovano l’Africa in un paesino del Sud Italia, mescolano culture, epoche e tradizioni diverse, riscrivendo il concetto di world music a colpi di footwork, house e drum and bass.
“Ode to The Pleiades”, incastonata nel bel mezzo dell’album, è in questo senso il trionfo dell’attitudine “glocal” di Clap! Clap! e probabilmente il momento più significativo di tutto “A Thousand Skies”. L’inaspettato, commovente assolo di pianoforte così come gli accenni ambient in sottofondo la dicono lunga sulla natura del disco: la meraviglia si nasconde nei luoghi più disparati e Clap! Clap!, che l’ha cercata in lungo e in largo per il globo, l’ha ritrovata in quelle costellazioni che affascinano l’umanità da migliaia di anni. Da qui, il bisogno di ritagliarsi nella frenesia generale più di uno spazio per poter fermarsi un attimo a contemplare, a riflettere e, perché no, a sperare.
Allora il club ideale dove far risuonare “A Thousand Skies” è in punto qualsiasi tra il deserto e la Calabria, Chicago, Londra e la Sicilia, esattamente a metà strada tra la terra e il cielo: le crude percussioni di “Ar-Raquis” e “Centripetal” si alternano a parentesi spaziali, vedi l’outro di “Hope” o la cupa “Witch Interlude”. L’ascoltatore, dal suo canto, ha le gambe ben piantate sulla superficie terrestre e la testa immersa nelle nuvole, o forse viceversa, ma è così impegnato a ballare che non dà certo peso a queste inutili sottigliezze.
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La recensione A Thousand Skies di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2017-02-27 00:00:00
COMMENTI (1)
Sono contento che in Italia si faccia anche questa musica. Mi piace molto. Mi ricorda l'album dei Mombgwana Star "From Kinshasa".
Clap! Clap! da seguire con attenzione anche nel futuro