In realtà non è (solo) una moda, ma (anche) l'espressione di un'epoca. Dentro l'orizzonte della vita le frontiere del linguaggio sono qui svanite e là invalicabili. Non a tutti è concesso il passaporto poetico, così si sfruttano altri documenti di viaggio. Il non-sense, per esempio. Che sembra una moda, visti i Bugo che sbucano come funghi d'autunno. E invece no. Sbagliato, sbagliatissimo. Il non-sense è il nuovo pass-partout. La chiave per tutte le stanze. Il codice d'ingresso per gli alberghi a ore (che non necessariamente sono i motel, con tutte le scopate che ne conseguono). Quello di Alberto Motta e Claudio Sala non ha un nome preciso. Per simpatia (nei confronti di Paris, lo si sottolinei chiaro) lo chiameremo "Hilton".
In realtà, Alberto Motta è molto meno senza senso di quanto voglia far credere. Molto meno lo-fi di quanto appaia. Abbastanza lontano dal concetto vago ed amplissimo di indie. Alberto Motta fa con Claudio Sala del buon cantautorato grezzo e ruvido come la sua voce, blues per il colore saporito e lo-fi per la spudorata innocenza. Se non lo conoscessi di persona, mi farei una bella dose di fiale puzzolenti sotto il naso, per colpa di questo suo fare che sembra proprio dello stupido atteggiato. E invece no. Basta ascoltare il suo disco due volte per capire che tutte le stanze dell'Hilton sono l'oggettivazione del cogito perenne e spesso interrotto dei suoi proprietari.
L'Hilton non è un albergo di lusso. E' permesso sbagliare, ma vigono alcune regole: vietato guardare la partita di calcio, per esempio, oppure drogarsi e bere sì, ma con consapevolezza umanistica. All'Hilton è facile arrivare a parlare della vita, dei suoi momenti giù e su, come uno stantuffo, dei problemi e dei disamori socio-esistenziali che a Milano esattamente come altrove con facilità emergono a galla. Alberto Motta dà sempre la sua opinione scevra da invalicabili frontiere ideologiche. Dice la sua, bisogna starlo ad ascoltare, ed è piacevole. Peccato che talvolta alcune sue canzoni pecchino di esagerata ingenuità, di lacune di ispirazione e di un po' di noia. Ma bastano quattro colpi in canna ("Ellamay", "Gio' Riff", "Tra Francesco e dio" e "Oggi il pavimento sembra il muro") e l'albergo è (quasi) pieno.
Detta così, ti sembrerà una partita di golf dentro un albergo per ricchi, ma non cadere in inganno. Otto buche. In qualcuna di queste ci si cade con il piede storto, e non è che faccia benissimo. In altre, invece, ci si affoga meravigliosamente. Per il resto la hall pare addobbata bene: rustica, affusolata, rosso mattone. C'è qualcuno che suona l'acustica e sui tavoli dimorano biccheri sempre semivuoti. Il consiglio di Alberto Motta è che la musica in diffusione non si accompagna granchè alla cocaina. Se lo dice lui, c'è da credergli.
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La recensione Al loro ingresso nella hall, con tutte le buche di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-02-01 00:00:00
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