Si tratta Elli de Mon. Ed è materia pregiata.
Ci sono due modi in cui la musica occidentale si è incontrata con quella orientale e sono entrambi sintetizzati da due brani dei Beatles: uno più allegro e scanzonato, alla “Norwegian Wood” (che tra l’altro fu il primo brano europeo a ospitare uno strumento indiano) e uno più oscuro, evocativo, alla “Within You, Without You”.
Elli de Mon, in questo fantastico “Blues Tapes: The Indian Sessions”, ha virato decisamente verso la seconda opzione, deformando il blues a colpi di sitar in una materia vischiosa e ancestrale. Il tutto con una voglia di esoterismo che neanche i Led Zeppelin.
Le tinte sono oscure, le atmosfere rarefatte e misteriose. La onegirl band vicentina vuole riportarci dritti dritti alle origini del mondo, riprendendo i più antichi canti tradizionali indiani e mescolandoli a un linguaggio consueto, il blues, solo per renderli commestibili ai nostri palati occidentali. In altre parole, l’operazione di Elli de Mon è riuscita talmente bene che sembra ribaltarsi: non è il blues ad essere servito in salsa indiana, ma è il misticismo indiano a servirsi del blues per trasmettere il proprio messaggio. Tant’è che sarebbe stato più azzeccato chiamare il disco “Indian Tapes: The Blues Sessions”.
Certo, c’è anche una sensibilità tutta western: le canzoni contenute nell’album sono per 3/5 delle reinterpretazioni di classici del delta del Mississippi e per 2/5 dei brani inediti. Ma l’immaginario in cui sono immersi è insieme psichedelico e primordiale. Prendete la opening-track, “When The Train Comes Along”: si può immaginare allo stesso tempo che a cantarla sia una donna intenta a bagnarsi sulle rive di un fiume o una rockstar strafatta di peyote nel deserto. Ma cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, e se l’intro ha un fascino primigenio (pur rievocando in parte le atmosfere di “My Wild Love” dei Doors), la seconda metà della canzone è una cavalcata a base di slide guitar.
Anche “Last Kind Words” beneficia di questo straniante melting-pot: il brano si srotola su un wall of sound fatto di sitar, ma finisce per avvicinarsi troppo pericolosamente a "Venus In Furs" dei Velvet Underground. Eppure non si capisce mai se Elli subisca di più la fascinazione delle sperimentazioni indianeggianti degli anni ’60 o dell’India in sé e per sé. La risposta è parzialmente data da “Purple Haze”, che riecheggia sorprendentemente roba tipo Massive Attack o Portishead. Ma è forse nei due brani inediti che è possibile trovare la vera anima della cantautrice, dilaniata fra due cammini paralleli: “Fear”, ad esempio, è introdotta da un canto Druphad, il più antico stile ancora esistente di musica classica hindostana, ma verso la metà si trasforma in un pezzo che, se cantato da una voce maschile, potrebbe tranquillamente essere un pezzo dei Korn; per poi mutare ancora in un ritornello simil-garage rock. “Lullaby”, invece, è una ninna nanna in cui la nostra eroina canta per la prima volta in italiano e il risultato ha il sapore di una filastrocca esoterica da colonna sonora di film horror.
Ad ogni modo, ciò che conta non è solo lo stile, ma anche la sostanza. Elli ci porta indietro nel tempo tirando fuori un album che va dritto al centro della terra e su verso il cielo. Questi cinque pezzi riescono ad essere al contempo viscerali ed eterei, addentrando l’ascoltatore dentro una fitta coltre di mistero per poi farlo riemergere purificato. Forse si tratta di un vaneggio, o forse c’è veramente della magia in questo disco. Ad ogni modo, si tratta Elli de Mon. Ed è materia pregiata.
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La recensione Blues Tapes: The Indian Sessions di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2017-02-27 09:00:00
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