Stride, stride, stride. E’ questo che fa nelle orecchie la musica de “Il giorno del Pou” e quasi esclusivamente per il fatto che la voce, perennemente fuori tono, strana, sfibrata, si impegni a disturbare con costanza. Irritante? Volutamente inadeguata? Semplicemente sgradevole? Di certo il primo impatto destabilizza e viene naturale sedersi almeno un attimo a riflettere.
Personalmente sono sempre stata una feroce detrattrice del “bel canto”, ma nello stesso tempo sono convinta che anche il rifiuto del canone debba avere un limite (soprattutto una vera giustificazione), e se ho apprezzato just another day, che mescola in “salsa Rotten” qualche accento alla Lou Reed, è vero anche che altrove, e troppo spesso, ammetto di aver faticato non poco a proseguire nell’ascolto. Non si tratta di patrocinare l’appiattimento su soluzioni forzatamente “equilibrate”, tanto più che chi scrive non è esattamente chi più dista, nei gusti, dal disordine sonoro, ma semplicemente di non farsi sanguinare le orecchie, se proprio non serve, e di capire che persino nell’aula anarchica della cacofonia voluta e cercata il gesso scricchiola sulla lavagna solo quando deve, e non ogni volta che può. Mi lascia perplessa anche la costante tendenza a fissare singole intuizioni per poi riproporle all’infinito in una snervante coazione sia a ripetere che ad eccedere gratuitamente. Penso a giri che si moltiplicano quasi per forza di inerzia, a brani che si somigliano, a code chilometriche e abbastanza inutili. E’ davvero necessario? E cosa rende auspicabile qualcosa che (mi) procura fastidio senza perlomeno sembrarmi utile o innovativo?
Suonate le dolenti note diciamo anche altro: le intenzioni sono raffinate, le chitarre abili, l’attitudine rock spiccata, sebbene molto più cerebrale che viscerale.
Peccato che tutto risulti, alla fine, oltre che un po’ indigesto anche abbastanza insapore. Forse è l’effetto del container frigo adibito a sala prove dal gruppo, ma composizione e resa sprigionano sempre un certo “effetto gelo”, eludendo del tutto quella componente squilibrata e audace che dovrebbe trovar posto, in una dichiarata sensibilità post fugazi, molto più che il gusto della mera citazione.
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La recensione Thick and Long di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-02-03 00:00:00
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