Se gli Ant Lion fossero un quadro sarebbero “Tutto” di Alighiero Boetti. Se fossero un libro qualcosa di molto simile a “Sotto il vulcano”, la divina commedia ubriaca di Malcolm Lowry. La parola chiave qui è policromia. Onore e merito quindi all’etichetta Ibexhouse di Alessandro Fiori che, dopo felici rivelazioni come Solki e Vacantze, azzarda un discorso culturale e di ricerca in tempi totalmente contrari a simili finalità.
La prima traccia di questo aggressivo esordio infatti, oltre a contenere in conclusione il verso che dà titolo all’album: “A common day was born”, è una dichiarazione di intenti che non dà scampo. Isterica, instabile tra il vibrato del cantato che stringe la mano a Björk e gli arrangiamenti cadenzati e distorti. Il risultato è un collage e una commistione di generi che potrebbe disorientare. Si vorrebbe leggerezza e ed ecco pesantezza, si vorrebbero colori e s’incontrano toni in bianco e nero e viceversa. La soluzione di questo enigma chiamato Ant Lion deriva direttamente dagli anni di nascita dei suoi componenti che coprono quattro decadi diverse: gli anni’60, ’70, ’80 e ’90.
Un mix così ingarbugliato di strumenti e stili non può che essere il risultato di una mescolanza di background e di gusti che aprono ad ogni soluzione possibile. Ecco quindi un disco che fa pensare alla promiscuità e all’apertura mentale propria di certo jazz alla Hancock. La Formicaleone che dà nome al gruppo non a caso è un mostro. Qualcosa di simile all’essere rappresentato in modo non sufficientemente accattivante (nella scelta grafica forse un po’ lontana dalla poetica del gruppo) nella copertina del disco. Parlare di sperimentazione sarebbe banale e significherebbe ridurre “A common day was born” a inutile esercizio di stile. Perché invece le emozioni non mancano, anche se sono immerse in un liquido amniotico che, per permettere all’ascoltatore di percepirle, va filtrato con più di un ascolto. Così tra le nenie crossover “Hypno hippo” e “Two needles” e la complessità polistrumentale di “The head upstairs” s’incontrano preziosissimi episodi più che riusciti, come l’incantevole “Last day of night”, che può ricordare i Radiohead, e che sfociano, ancora una volta inaspettatamente, negli ipnotici cori assillanti del finale.
“Stay dog, still god” è come un fendente diritto al cuore di chi ascolta. Mentre “Nap” ci riporta subito alla realtà delle cose, distorsioni e cadenze crossover s’intrecciano a soluzioni maggiormente orecchiabili e armonie a più voci, alla Zappa, e un nervoso finale inatteso alla Primus. L’apparato ritmico di “Keep your enemies closer” ci trasporta in una intricata trama di basso funky e chitarre samba fuse indissolubilmente alla seducente voce di Isobel Blank che in questo frangente, nella sua poliedricità, incanta con una performance à la Astrud Gilberto. “Ashtray’s anarchy” ritorna a suoni più violenti e a una vocalità più monotona, scandita da cori assillanti e che trova la sua pace nella chiusa di “Spring doesn’t fall”, inizialmente silenziosa e distesa, poi rotta e spiazzante e che si conclude come in un’agonia, quasi negli ultimi tremiti di vita di un animale, nelle irregolari nacchere e triangolo che sembrano chiudere il cerchio con la intro dell’inquieto xilofono della prima traccia.
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