Da Napoli con candore. All’inizio è stato così. Un pensiero sciocco. Subito ravvivato, però, dal carico di mistero e magia che la formula Blessed Child Opera si portava dietro.
Maestosa, roboante, amabilmente tronfia. A quel punto, svanita l’ipotesi ludica, una sola parola, magnifica e scomoda, ha finito per scandire i miei ascolti: ambizione. Naturali aspettative, certo, ma con la A maiuscola. Lasciarsi alle spalle la palude provinciale e tentare la scalata allo Stivale. Indi un sogno concreto: uno spicchio dorato sul mercato internazionale. Partendo dalla consapevolezza che musica altra è possibile. Che si può essere un minimo originali pur ancorando cuore e istinti oltremanica.
Lingua inglese, ok, ormai la norma. C’è modo e modo, però. La compagine campana ne fa nobile uso avvicinandola a sfere autoriali. E basta una traccia, per sincerarsi dello spessore di Musicisti. Certe etichettature son vaghe, riduttive: ogni artista esprime sempre di più. Un quid impercettibile al primo ascolto, tante piccole schegge preziose che solo nel mosaico finale trovano un senso. Per cui, se sento post rock, mi adeguo poco ma sto al gioco, e ribatto che i BCO fanno slow folk rock psichedelico. Mistura utile, ossia, a ricreare atmosfere rivestite di sottile velluto cupo, raffinate e decadenti, sorrette da un corpus di trame prettamente acustiche, contrappunti leggeri di synth, incursioni di cello dal sapore d’Irlanda e un cantato multitimbrico. Ed è qui che sopraggiungono Psiche e Delìa: laddove si varca il suolo elettronico e l’apporto vocale, uno e trino, diviene dolente, ossessivo, lacerante. Fino a ricordare gli ultimi Radiohead mimetizzandosi pressoché integralmente con lo stesso Tom Yorke. Forse questo il maggior limite, oltre al fatto che i brani potrebbero chiudersi in tre minuti ma si traducono spesso in semi-suite labirintiche, col risultato di un ascoltatore sedotto che rischia poi di smarrirsi del tutto. E va bene la ricerca, il compromesso prog-folk, un po’ di noia però incombe. I più accattivanti appaiono proprio quelli dove minore, non dico assente, è la matrice Radiohead. “ Pimba cattiva”, incalzante e avvolgente, “ Flashing lights” (con eco Alan Parsons Project), “ Pimba buona” (qualcosa di Sting), “ Kill the moment” (gemma acustica di CatStevensiana memoria), “ To reach peace”, tenera sofferta ballata a due voci, “ Blue station”, tra dolcezza e furioso noise rock, la conclusiva “ Her januaries”, pura psichedelia bucolica magmatico-torrenziale impreziosita dall’intro del soprano Carmen D’Onofrio.
Insomma, il Bimbo Prodigio ha tutte le carte per fare passi da gigante. Basta non emuli Icaro, che avvicinandosi troppo al sole …
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La recensione Looking after the child di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-03-02 00:00:00
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