Un viaggio catapultato su una monorotaia al centro del deserto. Sotto un sole cocente, con la sabbia negli occhi. In compagnia di un cannibale.
Avevamo lasciato Le Capre A Sonagli a rotolarsi nella melma lisergica e deragliante de “Il Fauno” (2015) fra scherzi di demonietti, mazurche corsare e immaginari deliranti. Le ritroviamo a danzare attorno a un falò stregato, il muso pericolosamente unto di resti umani. “Cannibale” il titolo del nuovo lavoro del quartetto bergamasco, che vede diverse svolte nel percorso dalla genesi alla pubblicazione del disco: primo, l’uscita su Woodworm, a sancire un netto passo in avanti nella direzione orgogliosamente ostinata di una band che, a partire dagli esordi come Mercuryo Cromo fino all’ultima antropofaga produzione, non sembra aver mai ceduto il passo a soluzioni facili, inquadrabili e prevedibili, le stesse che le avrebbero forse aperto le porte verso un seguito di pubblico meritatamente più ampio; secondo, la produzione di Tommaso Colliva (già al lavoro fra gli altri con Muse, Franz Ferdinand, Afterhours, Calibro 35 e Ministri), più che guida domatore di un’istintualità controllata come mai prima, e mai come prima esaltata in un lo-fi avanzato verso ruvidità calibrate e piene; terzo, e chiave di lettura dell’intero album, l’evoluzione percussiva e ritmica che stavamo aspettando da tempo, dondolante pericolo che ne “Il Fauno” avevamo conosciuto a stadio in parte larvale e che oggi si erige a battente colonna portante di un’opera matura, cantata da una voce pienamente elevata al rango degli altri strumenti nella folgorante reggia caprina.
Nove le tracce del nuovo viaggio sonoro del gruppo, unite da un basso ubriaco e dominante a danzare con chitarre sguaiate, fuzz abbondante e atmosfere riarse e saline, in una partitura che lascia all’inclinazione stoner folk del gruppo un margine espressivo più compiuto, arricchito da catene, piatti infranti, campanacci e seghe circolari. Il risveglio, affidato al cupo e distorto mantra “L’arca di Hitchcock”, si fa evocazione tribale fra le ombre di un rogo sonoro indiavolato, primo zoccolo della felice triade in apertura al disco, che include le tracce più potenti e in cui più echeggia il maturato, bestiale mugghio del fauno: perché se in “Cannibale in mare” fa la sua comparsa l’elemento marino che già da "SaDiCapra" la band attraversa con capriole e animo filibustiere, ora il sale è diventato condimento con cui insaporire le carni umane da gustare in assenza di pane, in un naufragio del senno tra shaker sabbiosi, galli che combattono incitati da una folla inferocita, kazoo, interiora e campane da Far West pendenti come condanne a morte (“Gallo da combattimento”).
Posizione centrale per la sfrecciante “Treno per il Tibet”, scheggia di follia piromane (conoscendo la band ci immaginiamo un intervento di Colliva quanto mai massiccio per ridimensionarne l’impeto sferragliante) costruita su un basso leggermente in ritardo, disturbanti fischi di chitarra, didgeridoo e rumorismi assorti, che in parte trovano spazio anche nel gonfio e pesante volo di “Icaro” e soprattutto nella canzonatoria “La iella”, ideale continuazione de “La Triste Mazurca della Morte” e immancabile rimando ad una Morte bramosa e infame, che getta il sale nel calderone cui è destinata tutta l’umanità.
Parentesi di scanzonata divagazione per “Ride il pagliaccio”, che affonda fra schizzi di pianoforte e sbilenchi fischietti di flauto a coulisse la continuazione di un galleggiante monito affamato (“Mi chiedete spasso, poi tacete, vi incanto, nelle teste rimango/ Io mangio tutti voi”) e che bene precede le atmosfere amniotiche e pagane di “Rito azteco”: una giungla e un tempio in cui immolarsi per generare pioggia e grano –questi gli unici riferimenti fertili e vitali di un disco profondamente caustico- sino al sinistro rallentamento conclusivo di “Nerone”, celebrazione rituale e “canto di gioia” fra Om, lingue di fuoco, chitarre cupe e i bagliori in loop dell'Urbe che brucia.
Ciò che è successo alle perfezioniste Capre A Sonagli è di aver ridimensionato la propria componente più circense, fidandosi di una produzione artistica voluminosa ma non ingombrante, in grado di individuarne un potenziale sonoro che ad ora non era stato interamente sviluppato perché caricato in molte direzioni e per questo, talvolta, dissipato. Ne emerge un lavoro compatto e senza surplus, sulla cui evoluzione ritmica si delineano direzioni vocali più narrative ma non per questo, ed è un bene, più limpide. Piacerà ai seguaci dei Queens Of The Stone Age di "Era Vulgaris", del Tom Waits più rissoso, del Capossela più evocativo e ferino, di certi Primus rimbombanti. Ma ad amarlo sarà solo chi non teme un viaggio catapultato su una monorotaia al centro del deserto. Sotto un sole cocente, con la sabbia negli occhi. In compagnia di un cannibale.
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La recensione Cannibale di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2017-03-24 09:00:00
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