C’è davvero una bella fetta di mondo incastrata tra le ibridazioni sonore orchestrate da Louis DeCicco nella sua opera prima. Già il primo giro di ascolti ci fa dono subitaneo di una trasversale bellezza atmosferica che, per la vasta mole di suggestioni etniche generate, travalica i confini geografici e le costrizioni spazio-temporali per trasformarsi in vero e proprio corredo sonoro di un viaggio emozionale nella terra di mezzo tra inafferrabile spiritualità e sanguigna corporeità.
A fungere da collante immaginifico una genuina ritualità pagana – se volete di caposseliana memoria per la sua marcata aderenza territoriale – che il polistrumentista sannita estrapola dalla sua terra natia per farne oggetto di una garbata contaminazione, attingendo in egual misura ai suoni di Asia (“Nimrud”, “San Giovanni decollato), Africa maghrebina (“Illumina”), bacino mediterraneo (“I belong”), polverosa provincia americana (“The arounder”, “Bologna e noi”) e scenari anglosassoni (“How To Defeat The Gravity Being Together”), fino a distillare una personalissima forma di etno-psichedelia strumentale che non rifugge tuttavia dal richiamo sirenesco delle contemporanee diavolerie digitali.
Masterizzato dal buon Martin Heyne degli Efterklang “Watermouth” sfodera un’armamentario strumentale, degno di un Marco Polo della musica, che spazia dalla m’bira sub-sahariana al kou xiang cinese, passando per il saz baglama turco, i violini e le immancabili chitarre, qui vero baricentro melodico dei brani nella loro affettuosa vicinanza stilistica a Ry Cooder e Bert Jansch, candidamente eletti a propri padri putativi dal musicista campano. A samples, synth e field recordings, infine, l’onere di definire al meglio i dettagli cromatici di questa esplorazione sonora (e interiore). Insomma, tutto al posto giusto nel momento giusto, persino se vi venisse voglia di ascoltarlo al contrario.
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