"Polaroid" dispiega le proprie strade e il proprio slang in un solo gesto, e la sua eleganza sta nel suo essere forse non perfetto ma, proprio come un’istantanea, vivido e immediato.
«È passata una vita e non mi passa»: l’incontenibile voglia di raccontare una vita intera che ti prendeva quando ancora non avevi l’età per permetterti di parlare di “una vita”. Eppure, era quello il momento in cui si decideva. La vita, il quartiere, gli amici veri e persi, gli amori creduti, i mille bicchieri, le risate, tutte le serate identiche a morire di noia, i baci, i guai, le feste, e il film nella tua testa, i dialoghi, le scene. Tutto così fatto di frammenti, che però si tenevano assieme, e lo sentivi. Era il presente, suonava forte, passava e non passava, ti stava addosso e tu, che nemmeno te ne accorgevi, gli tenevi testa. Ti sembrava di essere «ancora pell’aria», ma eri già tu.
Carl Brave x Franco126 hanno intitolato il loro disco "Polaroid" (all’inizio non era nemmeno un disco: è stato prima una playlist su YouTube - a proposito del raccontare, con assoluta naturalezza, qualcosa del presente), una raccolta di istantanee che forse, a guardare meglio, sono soltanto fotogrammi di una stessa pellicola che si srotola. Da qui, una scrittura che procede felice e sovrabbondante per elenchi ed enumerazioni, qualcosa che riesce davvero bene al duo romano, e in mezzo a cui ognuno può scegliere il verso da ricopiare per riconoscersi. Tra fumo e birre, si mescola di tutto: frasi che sembrano tagliate e incollate dai nostri Whatsapp, fulminanti cronache quotidiane in una riga, «papiri di cazzate con le emoticon», piccola prosa crepuscolare, e anche quella decadenza spicciola a cui teniamo tanto in quella stagione acerba, ma stemperata da un sentimentalismo senza filtri né mediocre ironia. «So per certo cosa dire ma non te l’ho detto mai / e mi esce solo un "Come stai?"». Slanci e scazzi, illusioni e rimpianti, crederci fino in fondo e al tempo stesso avere già ben chiaro che «tanto finisce tutto prima o poi».
A fare da cornice costante, inesorabile e indispensabile, la città di Roma. Quella dei baretti di sempre, ma con i «grattacieli che si rubano il cielo»; quella del vecchio mercato delle sette, ma con le Enjoy che sfrecciano; quella della Fontana di Trevi, a cui rubare ancora oggi i desideri, ma pure quella dello “zozzone” dove finire la nottata. Una Roma con i gabbiani che planano sulla spazzatura e Villa Pamphili «verde che pare l'Amazzonia». Una Roma vista nei like sotto alle foto e nelle corse in motorino per tutti i vicoli e i viali. Una Roma che trasforma i barcollanti protagonisti delle storie che l’attraversano in «fiori cresciuti in mezzo ai sampietrini», onnipresenti nelle canzoni di Carl Brave e Franco126, tanto da ispirare la bella copertina firmata da Valerio Bulla. Come uno Urban Dictionary “de Trastevere”, "Polaroid" dispiega le proprie strade e il proprio slang in un solo gesto, e la sua eleganza sta nel suo essere forse non perfetto ma, proprio come un’istantanea, vivido e immediato.
Passa quasi in secondo piano mettersi a catalogare questo disco come hip-hop oppure no, trap ma non abbastanza, pontificare sulla qualità del flow di queste rime irregolari, che non parlano mai di sé stesse. Non è difficile immaginare che, se fosse uscito qualche anno prima, sarebbe stato un disco suonato e cantato in maniera molto più “italiana” e convenzionale.
Queste canzoni, con certi ritornelli già pronti per diventare tormentoni, potrebbero reggere un trattamento cantautoriale classico. Ma "Polaroid" è un disco del 2017 a tutti gli effetti, e quindi ecco che ci sono le voci roche di sigaretta ingoiate dall’auto-tune, i ritmi scarni mai troppo veloci, dalla cadenza di nenia, e pochi bassi ma efficaci a riempire. L’ingrediente in più che Carl Brave e Franco126 hanno saputo aggiungere è una misurata combinazione del sintetico con elementi più caldi, soprattutto chitarre acustiche a reggere le melodie, ma anche sassofoni o violoncelli. Non a caso, nelle interviste i due possono citare tanto Neffa quanto Paolo Conte, passando per il contemporaneo Calcutta e – va da sé – pure per Califano (anche se, a mio parere, l’influenza principale su questo suono resta la stupenda "Faustona" di DJ Gruff). È un album che scavalca abbastanza sciolto la questione dei generi e delle pose, e anche per questo motivo mi piace pensare che sia o possa diventare un’autentica polaroid del suo tempo.
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La recensione Polaroid di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2017-05-08 09:16:00
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