Un vento gelido, portato dall’anticiclone scandinavo, soffia lungo aride pianure, percorrendo incontrastato i luoghi di quella che una volta era la civiltà. Lo sguardo di un uomo solitario, uno degli ultimi superstiti, si staglia lungo l’orizzonte delimitato da una skyline indefinita e sovrastata da un cielo plumbeo; respira lentamente, osserva, forse oggi il sole non risplenderà.
Dentro di sé sta ripetendo le parole scritte, secoli orsono, da Baudelaire: “Tutto l’inverno in me s’appresta a rientrare; ira, odio, brividi, orrore duro e forzato lavoro e, come il sole nel suo inferno polare, il cuore non sarà più che un blocco rosso e ghiacciato.”
Ed è così, che dopo due anni da "Still Bleeding" torna sulla scena Luca Mazzotta, pubblicando "The Human Defeat", secondo capitolo della sua creatura Helfir. Il musicista polistrumentista pugliese dà alla sua musica nuove vesti, plasmando sonorità diverse e complementari rispetto al lavoro di esordio.
L’album ci trasporta lungo un percorso di riflessione, un’aspra critica verso gli errori dell’uomo, condannando tutti i gesti che ha messo in atto e perpetrato contro se stesso e contro la natura. La traccia di apertura "Time in our Minds" è il connubio di sintesi che delinea la struttura generale del disco, dove i leggeri sprazzi di elettronica, presenti nell’intro, confluiscono verso le incisive chitarre, irrompendo in quello che sembrava essere uno scenario avvolto in una pacata atmosfera. La voce esplode in un profondo growl, portando immediatamente il disco all’apice della sua oscurità; un altro episodio simile possiamo trovarlo in "Golden Tongue", ruvida traccia di transizione che fa da apripista alla fase conclusiva. Ho parlato di transizione perché "The Human Defeat" segue un percorso ben preciso: i riff prorompenti della prima traccia mutano immediatamente, lasciando spazio ai suoni cristallini di "The Light" (primo singolo del disco, accompagnato da un clip diretto da Antonio Leo) dando risalto all’ecletticità compositive e canore di Mazzotta.
Le chitarre e la voce di scuola nord europea ci guidano attraverso il cuore del disco, il cui ciclo vitale è scandito dalle parole scritte da Charles Baudelaire in "Canto d’autunno", opera che ha fortemente ispirato l’autore, tanto da dedicare e comporre un brano che porta il titolo dell’opera onomonima del poeta decadente per eccellenza: "Chant d’automne", un raffinato episodio acustico dal forte pathos.
Con Mechanical God e Climax 2.0 veniamo sorpresi e catapultati in quello che potrebbe essere un futuro distopico, fin troppo prossimo. I due brani raccolgono in sé i momenti più particolari, racchiudendo in un intermezzo di 10 minuti circa, sonorità che abbracciano l’elettronica, il più atmosferico trip hop e l’immancabile aura gothic che irradia ogni istante del disco.
Le istantanee che si generano nella mente sembrano quasi estratte dalle parole di Cormac McCarthy, descrivendo un vortice di disperazione che ha come fase conclusiva una flebile speranza.
"The Human Defeat", però è un lavoro ben distante dalla rassegnazione, anzi si pone sotto molti aspetti come un’opera matura e severa, da cui trarre profonde elucubrazioni accompagnate da un piacevole ascolto.
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