Andrea Venezia non c’è più. Ci ha lasciato poco meno di un paio di mesi fa. Una malattia dal decorso breve ma vigliacca quanto basta. Ed è finita lì. Game over. Abusando di uno stereotipo banale e per certi versi grottesco, potremmo dire che se n’è andato in silenzio. Già, ma se davvero così fosse, suonerebbe come una contraddizione. O meglio: come un’ulteriore accanimento. Perché Andrea, di fronte al microfono, la voce preferiva tenerla a volume alto. E la sua voglia di vivere e lottare, te la urlava in faccia.
VeneziA era il suo progetto, condiviso con il socio Donato Di Trapani. Un cortocircuito di blues e sperimentazione elettronica. Computer, armonica a bocca, percussioni, quest’ultime curate da Roberto Calabrese, e poco altro. “La materia, il segno, la forma, la poesia”, l’ultimo atto del gruppo. Un elenco incompleto: manca il rumore. Termine che avrebbe descritto con maggiore efficacia il campionario di blues allucinato, tribalismo, mantra, suoni avanguardistici presenti all’interno del disco. Che vive di elettronica potente e calda, viscerale, ricca di richiami psichedelici, industrial, salvaguardati da un innato spirito punk. La voce di Andrea Venezia, sgraziata e nevrotica, conduce verso scenari densi di rabbia, scanditi da ricerca di amore e di (vane) certezze, da invettive contro modelli di sviluppo assassini, dalla lotta contro i demoni e le nuove inquisizioni. Nessuno sconto, nessuna illusione (”Non hai più sogni da offrire né scrigni da aprire, sono vaneggi e tormenti tutte le tua fantasie”, recita “Big decision”), solo consapevolezza di vivere un’esistenza precaria, disordinata (”Pestiamo polvere per averne ancora”, spiega il testo di “Quando dico cosa sento”), in una società ingiusta, contro la quale combattere diventa una necessità inderogabile.
Donato Di Trapani asseconda la poesia sanguinante del proprio sodale attraverso composizioni dall’immaginario inquieto e apocalittico, dal fascino intenso e magnetico. Il computer, oltre a inglobare le note in un uscita da una armonica a bocca densa di calore, spinge verso soluzioni drastiche, impietose, almeno quanto le parole salmodiate da Andrea Venezia. Tra i suoni del disco c’è un po’ di Franco Battiato di inizio carriera (innegabile che “Cerca la nota” ricordi le atmosfere di “Sulle corde di Aries”), sfreccia la tastiera protofloydiana (una Casio degli anni ’80, trovata tra le cianfrusaglie di un rigattiere di Palermo) di “La nuova inquisizione pt. 2”, vagano l’ossuto tribalismo della già citata “Big decision” e le improvvisazioni caotiche di “Urlo”.
Certo, “La materia, il segno, la forma, la poesia” non è un disco di facile fruizione ma, con ogni probabilità, è quanto di meglio avrebbe desiderato un artista visionario del calibro di Andrea Venezia. La colonna sonora più appropriata per un viaggio che avremmo voluto avvenisse molto ma molto più in là nel tempo.
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