Tante influenze, e tanta classe, concentrate in sei canzoni.
Sì, è un luogo comune, ma se ci scrivono libri interi su quanto sono fighe, snelle ed eleganti le francesi, del vero ci sarà. Esisteranno anche le francesi sgraziate e prive di gusto, ma diciamolo, almeno quando si parla di attrici, sfido chiunque a sostenere che non sono le più, non belle, quello sì sarebbe banale, le più eleganti, affascinanti, intriganti. Cosa c'entra tutto questo con un disco? C'entra perché c'entrano davvero tante cose, in questo disco, e poi c'entra perché è a una delle suddette charmantissime attrici d'oltralpe, Dominique Sanda, che Margherita Capuccini ha rubato il cognome, e la scelta si intona come si intona un tubino Chanel a... be' a tutto e a tutte, alla sua musica che è fascinosamente sfuggente, cosmopolita, impeccabilmente imperfetta, distrattamente ineccepibile, proprio come una di quelle creature mitologiche metà donna metà Marion Cotillard che sono fantastiche sia in Dior haute couture che in tuta da casa.
Il suo primo ep Margo Sanda l'ha fatto in casa, però la spontaneità DIY non si traduce in sciatteria. Anzi, i brani sono tutti, seppur frutto di improvvisazioni (come spiega l'autrice) ricchi, stratificati, e più da club che da cameretta. Salvo eccezioni, come la più intimista “Enjoy”, dalla distorta e ipnotizzante anima folktronica che incrocia Angel Olsen e XX prima di lanciarsi in una nebulosa noise, e l'ultima “Malegola”, dove ai nomi di riferimento citati da lei stessa (la Olsen, John Frusciante, Grimes, Arca, Ramona Lisa, Beyoncè, Nils Frahm, Brian Eno) si potrebbe aggiungere quello di Nico, sola o coi Velvet Underground di “Sunday Morning”.
Mentre il resto si muove su ritmi più incalzanti, quando non tribali, come in “More”, o velatamente orientali (“Vuoto”, “Light Hat”), sincopi, sovrapposizioni, dissonanze, sulla voce spesso usata come uno strumento per creare ulteriori effetti – vedi ad esempio il “loop” di “Enjoy” -, su un bianco e nero in cui si intravedono le forme sperimentali di Björk e quelle pop di St Vincent, le ombre dark-riot di PJ Harvey e il soul 2.0 delle Ibeyi.
E da tutte queste curve intrecciate emerge un ritratto complesso, esistenzialista, sofisticato, come la protagonista di un film della Nouvelle Vague. Che in inglese si dice New Wave, significa un'altra cosa ma un po' c'entra anche quella. Non è che c'entrano troppe cose, per essere solo sei canzoni? Forse un po' sì, però, magari proprio perché sono solo sei, non disturbano. Come le occhiaie sulle attrici francesi.
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La recensione Delay di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2017-11-13 00:00:00
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