Nonni: gioventù bruciata. Padri: gioventù bucata. Figli: gioventù brucata. Come analisi è interessante. In mezzo c’è un po’ di antropologia, oltre a un pizzico di sociologia e qualche cenno di autocoscienza. A formularla i Pinguini Tattici Nucleari, un gruppo di rock demenziale. E forse si era intuito. Ma ci sta. Ci sta che certe bordate (il gregge che bruca e si riempie la pancia senza fasi troppe domande come metafora di certi giovinastri incolti e schiavi del conformismo) debbano arrivare da chi ha scelto l’arma dell’ironia (a volte espressa in modo feroce) per descrivere la decadenza della società occidentale. Ci sta anche (soprattutto) che la formula funzioni.
“Gioventù brucata”, terzo album del combo bergamasco, è un compendio di suoni muscolari, talvolta devoti all’air-metal, di progressve, di accenni zappiani, di inserimenti a volte spiazzanti, tipo il reggae, l’afro o il latino americano. Come se le diverse anime della band si fossero impegnate a cercare, trovandolo, un punto di equilibrio. Espresso dall’aggressività, dai riff che ti spezzano in due, dal tiro, dall'innegabile perizia tecnica. dall’istinto ma anche dalla ragione. Appiccicati insieme dal sarcasmo, dallo scherno, dall’irrisione espressi in quantità industriale nei testi. Che fanno storia a sé, che vivono di luce propria. Si ride, poco da dire, ci si diverte, si balla in equilibrio tra innocente derisione e bastardate assortite. Che dire di “le mie mani Brigate Rosse accarezzano te che sei Aldo Moro”? E cosa potrebbe pensare una femminista, se ancora ce n’è una in giro, di una frase come “la figa è come la moka, se la usi spesso non devi lavarla”? Son solo esempi (estremi, va da sé) del modo attraverso il quale i Pinguini Tattici Nucleari portano avanti la dissacrazione delle nostre brave certezze (la spesa all’Ikea, l’esame di maturità, il sesso, la televisione…). Ci voleva, in tempi come questi, quando, presto o tardi, comincerà a mancarci la cattiveria di Elio e le Storie Tese, il principale punto di riferimento dei Pinguini Tattici Nucleari. Si era capito, vero?
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