C'è una canzone - che probabilmente tutti voi che starete leggendo queste righe conoscerete a memoria - in cui il primo verso inizia con un lapidario "É una questione di qualità". Non credo quindi sia del tutto casuale il fatto che per raccontarvi de "La mia generazione" mi sia venuto in mente proprio quel verso, quasi a ribadire una fondamentale premessa quando si ha a che fare con la musica. C'é però da considerare che, per chi quella stagione l'ha vissuta in prima persona, imbastire una recensione senza mettere in mezzo la nostalgia, la gioventù e l'album dei ricordi è praticamente impossibile. Perché quella fu una stagione in cui era spessissimo una questione di qualità e, guardandosi indietro, il giudizio non può essere dettato solo dalla nostalgia, tanto che neppure i detrattori più acerrimi riuscirebbero a dirne il contrario.
Fatta questa indispensabile premessa, serviva qualcuno che, dopo un quarto di secolo, celebrasse quella stagione. Non dico fosse inevitabile, però potevano essere in tanti a ricoprire questo ruolo, perché ormai i tempi erano maturi. Decide quindi di tentare l'impresa colui che, di quell'epoca, fu (almeno per il sottoscritto) probabilmente il vocalist più dotato. E lo fa con una modalità tutt'altro che inedita rispetto alla sua cifra stilistica, ovvero prendendo le singole canzoni e, senza stravolgerle, se le cuce praticamente addosso. Non reiventa nulla, non gli interessa dimostrare chissà cosa, vuole semplicemente colpire nel segno, magari facendo scorrere qualche lacrima agli "inguaribili nostalgici" che, come me, si sono buttati a capofitto nell'ascolto.
Nel dettaglio quasi tutto gli riesce alla perfezione, tanto che se proprio volessimo fare le pulci potremmo rimproverare la scelta di "Non è per sempre" (Afterhours) e di "Lasciati" (Subsonica), due tracce la cui rilettura appare forse un po' troppo convenzionale. Però il resto è pura meraviglia: "Cose difficili" (Casino Royale) perde il suo mood scuro trasformandosi in un soul caldissimo, "Huomini" (Ritmo Tribale) diventa una cavalcata impreziosita dal cameo alla voce di Manuel Agnelli, "Lieve" (Marlene Kuntz) e "Stelle buone" (Cristina Donà) acquistano lo status di canzoni più belle dei Carnival Of Fools in italiano, mentre "Corto maltese" (Mau Mau) sembra un classico dei La Crus rimasto nei cassetti in tutti questi anni. "Aspettando il sole" (Neffa e I Messaggeri della Dopa), "Baby dull" (Üstmamò), "Forma e sostanza" (C.S.I.) e "Il primo Dio" (Massimo Volume) rappresentano invece, secondo il mio punto di vista, le vere scommesse (vinte a mani basse) di questo album, avendo ognuna di queste un'anima propria, diversa dalle altre.
Mancano all'appelo "Cieli neri" (Bluvertigo) e "Nera signora" (La Crus), due episodi delicatissimi su cui Giò avrebbe potuto perdere il controllo e invece tiene dritta la barra in maniera magistrale.
Insomma, non bastava cucirsele addosso, perché era indispensabile differenziare la chiave di lettura; Giò non si tira indietro e il risultato sono 13 versioni, quasi tutte superlative. Adesso la tentazione è quella di voler assaporare quanto prima il volume 2. We want more!
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