Gioele Valenti è un mistero difficile da spiegare, anche se bellissimo da raccontare. Lo conosci come rumorista radicale e senza sconti e lo rivedi folk singer ispirato e sottovoce: è Herself, alter ego indipendente - per davvero - che con qualche disco raro e prezioso ci illude che una certa idea di America trovi un controcanto autorevole in questo spicchio d’Europa. Apprezzi l’evoluzione da cantautore crepuscolare e diffidente e lo riscopri navigatore cosmico e luccicante: è Lay Llamas, progetto lanciato in orbita da Rocket Recordings che si ritaglia uno spazio importante nell’Italian Occult Psychedelia. Ti abitui alle derive siderali di suoni impegnativi e sopraffini e ti ritrovi d’un tratto al centro di un flusso che arriva da tre o quattro continenti diversi: è JuJu, la nuova visione di Valenti.
“Our Mother Was a Plant”, il secondo album, è tra le opere più mature del musicista palermitano, ormai a suo agio all’interno di una situazione creativa da band a tutti gli effetti. “In a Ghetto” è kraut rock con vista Africa, tribale il giusto e psichedelica nella sostanza: riprende un po’ lo spirito critico che aveva caratterizzato l’esordio dell’anno scorso di JuJu, quell’attenzione nei confronti di un Mediterraneo sempre più crocevia di morti e disinteresse anziché simbolo di dialogo e culture. “And Play a Game” trasforma i JuJu in un gruppo di grande ritmo e molta oscurità, tipo i Liars di “Proud Evolution” - quattro quarti di base e cinque o sei varchi dimensionali intorno.
“I Got Your Soul” è jazz morbido e al tempo stesso un po' rognoso, come se i Goat suonassero a modo loro il repertorio di Mulatu Astatke con gli Heliocentrics. Il riferimento ai Goat non è casuale, dato che Capra Informis è ospite in alcune delle tracce del disco di JuJu. Tra i due progetti c’è una certa affinità di suoni, ricerca, influenze. Ma se gli svedesi hanno un’attitudine freak decisamente ostentata, Valenti ha invece un background più rock che spesso emerge anche tra le divagazioni psych di “Our Mother Was a Plant”. “Patrick” ne è l’esempio più palese: dietro a una voce sottile e spettrale si agita un arrangiamento segaligno e coinvolgente che gira intorno a poche note, quanto basta per creare un ottimo brano di lotta e di pensiero. È la caratteristica di JuJu: musica netta nelle intenzioni e coerente nell’attuazione, psichedelia di alto livello che all’estero ha già fatto presa, come si è visto nell’edizione 2017 del Liverpool Psych Fest. “Our Mother Was a Plant” è dunque un album maiuscolo: in questi ambiti, il migliore dell’anno - finora - assieme a quello dei Julie’s Haircut.
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