Nel 2011 l’esordio con “Un giorno il mio ombrello sarà tuo”. Poi qualche anno a suonare in giro, senza progetti ben definiti. Almeno in apparenza. In realtà Davide Viviani ha continuato ad agire nell’ombra. Passando il tempo a incastonare pietre preziose, a creare dal nulla gemme, piccole o grandi che siano. Come fanno gli orefici, quelli che amano il bello. E la bellezza è di tutti, anche se bisogna cercarla.
Viviani è arrivato a decodificare la personale visione di bellezza attraverso una manciata di canzoni. Le ha raccolte all’interno della sua seconda fatica discografica, “L’oreficeria” (e già…), imponendo alle proprie storie un forte impatto letterario ed emotivo. Che straborda nella malinconia, nei sogni, tra le gesta di personaggi pittoreschi, nella poesia (“Avrei dovuto appoggiare il cuore a terra per evitare di farlo cadere, ma non saprei dove ubicarlo altrove, si ostina a rimanere dove sta”). Storie che si snodano lungo traiettorie delicate e fortemente evocative, tavolozze di note gentili e crepuscolari, governate dalle mani sapienti del produttore Alessandro “Asso” Stefana. Un dai e vai decisivo, che il cantautore di Salò sfrutta per tirare fuori suoni dilaniati dalla steel guitar (come in “E a tutto quel mondo lì”), viaggiare tra le strade polverose del Nord America (“Agua”), omaggiare il primo Tom Waits (“Salomon David”) e un Fabrizio De Andrè immerso in atmosfere quasi prog (“Lu porcu meu”) per poi intersecare voce, sei corde acustiche e pianoforte nella straziante “Litania della città alta”, evocare atmosfere circensi (“Nella colza”) e trasformare in musica una poesia di Valentina Gosetti (“Leashed”).
A dare man forte in questa mezz’ora o poco più c’è anche Marco Parente, alle prese con batteria e percussioni, un nome se vogliamo ingombrante ma non tanto da oscurare il gran lavoro di Davide Viviani, sospeso tra sussurri e di grida. Pieno di quella bellezza cercata e trovata tra le pieghe di un cantautorato intriso di sfolgorante intimismo.
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