In tempi non sospetti ci si è qui chiesto cosa stesse succedendo al rap italiano nel momento in cui sempre più andavano sciorinando brani a metà tra il cantato, il rappato, il suonato e i beat-break. A distanza di mesi dalle polemiche che ne conseguirono e dal suo ottimo "Educazione Sabauda", disco che forse fu tra i primi a smuovere quelle riflessioni, Willie Peyote torna con un più che buono "Sindrome di Toret".
Il disco richiama continuamente all'incontinenza verbale, alla necessità di lasciar fluire in maniera più che trasparente quanta urgenza c'è nel dover dire anche a costo di risultare poltiicamente scorretto. Non è allora affatto fuoriluogo ma anzi è una brillante soluzione la citazione al celeberrimo sketch comico di Louis C.K.: la categoria del cervello chiamata "Of course, but maybe".
Willie Peyote è molto bravo a scrivere, ha un flow convincente e il giusto carisma nella delivery. Dice cose intelligenti e con un certo piglio, risultando più che efficace. La scrittura è coinvolgente, lucida e sempre abbastanza vigile su sé stessa da non scivolare in populismi davvero troppo facili in un concept disc che ruota attorno alla libertà d'espressione. Le mille e più sfumature sonore alternano arrangiamenti house funk, riuscitissime code jazz e groove più serrati - particolarmente adatti alla dimensione live.
Quello che è interessante notare è il modo in cui ancora una volta Peyote non ha cercato di fare il compitino ma ha altresì tentato di fare qualcosa che gli risultasse nuovo, ha cercato di alzare ancora una volta l'asticella con sé stesso.
Ciò che ci è arrivato è un disco che non teme alcuna etichetta (c'è il rap, sì, d'accordo, ma non è mai autoreferenziale, anzi, come dice lui: «mi serve un leader d'opinione che mi dia un'indicazione: / sono più rap o più indie, cazzone?») ed anzi brama d'essere trasversale («Che poi sai non discrimino, andrei pure a Sanremo / Perché convincere chi è già d'accordo è facile, scemo! / E faccio un disco che è hardcore / Anche se c'ha un'altra forma / Per arrivare a tua nonna / Perché la D'Urso è una stronza» dice subito nel primo brano, Avanvera). La buona notizia è che ci riesce.
Di tentativi così originali e personali, capaci di destreggiarsi in maniera più che godibile tra diversi background di riferimento come possono essere il rap e la musica italiana d'autore, questa black music italiana («nera come Carlo Conti» da Vilipendio) ne ha davvero troppo pochi. Occhio però: i momenti davvero leggeri del disco sono pochi e per lo più affidati a parti strumentali, il finale di "Giusto la metà di me" è il giusto esempio, vero highlight del disco.
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