Un album che centrerà il cuore degli appassionati (e non) di western all’italiana a colpi di buon vecchio prog.
C’era una volta lo spaghetti-western, “la trilogia del dollaro” e pistoleri dal grilletto facile. C’era ancora, grossomodo durante gli stessi anni, il rock progressivo in cima alle classifiche, sintetizzatori su sintetizzatori e chitarristi dall’assolo infuocato. A far scontrare, rigorosamente nel deserto di Tabernas in Almería, un’oncia di piombo e una manciata di riff, Ennio Morricone e le atmosfere pinkfloyadiane, ci voleva “Il lungo addio” dei Dollaro D’Onore, un album che centrerà il cuore degli appassionati di western all’italiana a colpi di buon vecchio prog.
Che il gruppo voglia innanzitutto omaggiare Sergio Leone e ancor di più Morricone è chiaro fin dai titoli dei brani: pezzi inediti ispirati all’età d’oro del genere e riarrangiamenti in chiave moderna di alcuni grandi classici. Sapere poi che “Il lungo addio” è stato pubblicato in occasione dell’ottantanovesimo compleanno del celebre compositore non fa che riconfermare, qualora ce ne fosse stato il bisogno, il grande amore per questo filone.
Le prime battute di “E lo chiamarono Giustizia”, con tanto di schiocchi di frusta e fischiatine in allegato, vi mettono in testa il capello da cowboy e fanno entrare con scioltezza nel mood adatto, ma è la deliziosa climax del pezzo, tra un’elettrica squillante, archi minacciosi e fiati in pompa magna, a far capire la cura per il dettaglio che i Dollaro D’Onore hanno dedicato al progetto, ben più di una semplice operazione nostalgia. Eppure, la patina malinconica che ricopre il disco non manca: è certamente il caso della title-track, dove l’atmosfera da “Great Gig In The Sky” viene diluita in uno struggente assolo di tromba, poi spezzato da un’entrata a gamba tesa della sei corde.
Se nell’immancabile “Duello al camposanto” è la macabra accoglienza del piano a farla da padrone, è con “Un’oncia di piombo nel cuore” che la vena più progressive del gruppo esce allo scoperto, tra cori epici e soluzioni al limite del metal. Inediti a parte, così come i Calibro 35 hanno attinto ai temi classici dei film polizieschi, la rilettura dei Dollaro D’Onore delle colonne sonore western regge e fa venire voglia di riscoprire a fondo le originali. La nuova versione de “Il mucchio selvaggio” è nettamente più acida dell’originale, ma ne mantiene intatto lo spirito; la cover de “I giorni dell’ira” di Riz Ortolani capovolge la crudezza del brano in un trionfo da orchestra e il rifacimento de “L’estasi dell’oro” sta a Morricone quasi quanto “Canon Rock” sta al canone di Pachelbel.
In questo modo, oltre che per i fan sfegatati, un disco del genere, che sa rileggere con originalità la tradizione e, soprattutto, è davvero ben suonato, è una guida validissima per chi non si è mai avvicinato alle pellicole western e avrà più di un'occasione per saldare il debito.
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La recensione Il lungo addio di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2018-01-25 09:00:00
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