La prima volta che sono incappata in Priestess è stato in occasione dello scorso MI AMI, quando la femcee pugliese ha prestato la voce a Liberato per "Tu T’è Scurdat ‘e Me". Giovane ma con uno stile d’interpretazione già suo, con la sensualità della donna del sud e l’outfit di chi lo street style lo mastica bene, si è capito da subito che si trattasse di un corto circuito vivente, in grado non solo di farsi notare, ma anche di farsi ricordare.
Alcuni ai tempi bofonchiarono che non avesse lo standing adeguato alla situazione: il primo live di Liberato era una situazione molto hype e come il solito paternalismo vuole, se una tipa vuole esporsi in una situazione così hype deve arrivare già come pacchetto completo: conosciuta, collaudata e almeno 3 volte più preparata della controparte maschile. In realtà Priestess, che sembra effettivamente un personaggio di Gomorra - una sorta di Donna Imma in versione rap - era davvero molto giusta per quel pezzo e vederla ricalcare la cazzimma partenopea è sembrata la cosa più naturale del mondo. Senza contare che ha comunque portato a casa un ottimo show.
In ogni caso, la conferma definitiva del suo talento e della sua identità artistica unica è arrivata con il drop del suo primo ep, "Torno Domani", uscito per Tanta Roba. Bello ciccione, il disco conta sei tracce di cui 3 inedite, tutte rotonde e curate al dettaglio. In altre parole, sei bombette. Pur essendo realizzato con una batteria di produttori diversi - Ombra, Dub.io, Polezsky, 2nd Roof, Kang, PK - vanta una coerenza stilistica chiara e definita, accennando anche qualche indizio sulle potenzialità e future evoluzioni (ma su questo torneremo dopo).
Cosa rende speciale "Torno Domani"? Una voce tecnicamente perfetta. Barre che, nel loro essere spiccatamente millennial e prese da tematiche quotidiane, risultano comunque inattaccabili perché ragionate parola per parola. Ritornelli che restano in testa per sempre ("giro di notte ubriaca, caschetto nero Cleopatra, io faccio rap, io faccio rap, mica ballo la bachata"). Infine, la capacità di dare effettivamente movimento a un disco trap, tra i generi musicali più monotonali di tutti, così che quando finisce ti restino in testa sei esperienze distinte, che spaziano da suoni più esotici e latini a più serrati ritmi elettronici. Un’altra cosa che ho adorato sono i temi. Perché, da Mina in poi, in Italia le donne hanno sempre e solo cantato di una cosa: l’amore. E ancora oggi, a parte qualche raro caso tipo Carmen Consoli, le cantanti parlano ancora quasi solo di questo. Nella scrittura di Priestess, anche quando la cosa si fa sentimentale emerge sempre il carattere prima del sentimento. In più, vengono esplorate anche tutte le altre dimensioni dell’essere una persona con un’emotività. La dimensione dell’essere outsider, per esempio: sentire un disco che racconta di weed e di hangover, di frequentazioni controverse o semplicemente che parli in modo realistico della noia quotidiana ("le 17, che vuoi che faccia?") dà una speranza che ci siano ancora tante altre cose da dire. Toccando apici in cui il discorso diventa davvero sottile, come in "Amica Pusher": quante volte capita di ascoltare un brano scritto con tutti gli street creds del caso, ma con un taglio così umano e analitico su cosa significa essere una ventenne che spinge erba?
Se tracciassimo una linea nel mondo della trap, il genere del valetutto per eccellenza, per separare artisti con una tendenza marcatamente leggera da tantissimo altro materiale improvvisato e volatile (chiudetela una rima ogni tanto), Priestess sarebbe sicuramente dal lato giusto della barricata. Ed è questa orecchiabilità di qualità elevata il motivo per cui, pensando alle possibili evoluzioni da qui a qualche anno, non ho potuto far a meno di immaginare un percorso che arriva anche al grande pubblico, quello che ascolta le canzoni in radio e che non ha paura di Sanremo.
E a quel punto probabilmente guarderemo la trap come oggi si guardano i tatuaggi tribali.
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