Come mescolare poetica leggerezza dal sapore di brezza improvvisa e cristallina con la malinconia eterea di giorni di pioggia sottile: l’esordio degli Stella Maris, supergruppo formato da Umberto Maria Giardini, Ugo Cappadonia, Gianluca Bartolo, Paolo Narduzzo ed Emanuele Alosi è un piccolo tesoro di ritmiche pop e materia rock che si scioglie in fluidi passaggi di scintillante armonia. Le parole d’amore dal gusto spinto dalla ricerca e dagli addii, dai pensieri che s’affollano la notte prima di dormire ai desideri incompiuti eppure sempre così vicini e palpabili, filtrano dolci tra le trame sonore che guardano con piacere agli anni ottanta inglesi, gli Smiths su tutti, e con la band di Manchester condividono il sapore agrodolce di liriche profonde su tappeti catchy.
Dall’apertura in crescendo di “L’umanità indotta”, che brilla di una luce che pare esplodere all’improvviso su paesaggi crepuscolari con la sua sezione ritmica densa di colori che sfumano lungo l’incalzare della batteria, al piglio easy pop di “Rifletti e rimandi” con una chitarra che sorride mentre fuori tutto sembra pronto a finire, “Ché nel tempo che viviamo tutto accade e fa male agli occhi, e che in realtà noi non ci amiamo e che nulla dura in eterno”; dal dondolio cullante di “Quella primavera silenziosa” che luccica e galleggia quasi psichedelica e certamente dreamy mentre qualche lacrima cade sul ritornello, alla presa immediata di “Eleonora no” con le sue chitarre che fanno le fusa per poi abbracciare in una danza assolata e riflessiva, e accompagnano una passeggiata verso traguardi lontani e occasioni mancate, con quel “Meglio prendere poco invece di niente” che racconta la prospettiva di una vita, e una frase che racchiude il senso di una storia che finisce: “La ricetta cambiò, la minestra d'amore che mi preparavi di colpo si raffreddò e noi due insieme a lei”.
Tutto è perfettamente in equilibrio, l’amorevole cura e il gusto per le cose belle, la semplicità della meraviglia, la poesia delle cose semplici: la voce di Umberto Maria Giardini sa ricamare urgenze narrative che nascono dal profondo con la purezza di uno sguardo sincero e ancora non vinto nonostante le durezze del mondo e l’asperità delle relazioni, mentre la musica disegna panorami che si fanno ora più intensi di umori perduti ora nitido sfondo per liberare parole. La morbidezza acustica e seducente di “Non importa quando”, ballad fitta di liquidi sussurri, la fragilità di delicate incomprensioni di “Tutti i tuoi cenni” dove tutto sembra impossibile da cambiare ( “Dimmi quante volte dovrò dirti che mi trascinerei via da qui e alla fine invece rinuncio, malgrado giugno è alle porte e già fa caldo”), fino alla chiusura di “Se non sai più cosa mangi, come puoi sapere cosa piangi?” che sembra davvero lasciare che il sipario cali su ogni storia, su ogni nota, a sigillare un lavoro che risplende e si insinua con facilità: una prova che si rivela come perla luccicante di bellezza, un progetto che convince appieno con la sua poetica leggerezza portata in braccio da nuvole di malinconia eterea, in questi giorni di eterna pioggia sottile.
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