“Iphutha”, Il Proposito: da una band che suona da anni e con più lavori all’attivo ci si aspetterebbe qualcosa di più.
Per colpa di ciò che abbiamo frequentato nel passato ci sono suoni che, per sempre, ci sembreranno familiari. Né noi che ascoltiamo, né chi i suoni li produce, ci può fare nulla. È così e basta. La questione poi si fa interessante quando ci si rende conto che ciò che può essere familiare per noi, magari non lo è per altri, anche a causa di una storia di ascolti musicali completamente diversa.
Quindi mi sono chiesto cosa porti una band ad avere, a scegliere di avere, un certo suono? La domanda fondamentale è: perché ricercare un suono preciso e proprio quel suono, senza porsi minimamente il problema di risultare superati, già sentiti o peggio obsoleti? La risposta è una sola, annosa, semplice e tassativa: non si può fingere di essere ciò che non si è.
Tutte queste domande me le sono fatte per colpa del nuovo disco de Il Proposito “Iphutha”.
L’album è un turbine di riff e armonie semplici che potrebbero anche convincere, come nel pezzo “1994”, se non fosse che la semplicità in eccesso non si smaltisce e resta lì, facendo tanto primi del Duemila. Non si tratta qui di dare etichette o di parlare di musica datata, perché se c’è una cosa positiva di questo disco è che la faccia punk si alterna a quella più alternativa quando meno te lo aspetti. Sono solo alcune scelte che lasciano spiazzati e rovinano ciò che di buono c’è. Come ad esempio l’infelice conclusione di “Sabbia”, che ha tutti i presupposti per essere un gran pezzo, ma che a un certo punto si perde, finendo per annoiare. Il problema è quando in pezzi come “La fine” ci si ritrova stanchi sin da subito, in attesa di qualcosa di nuovo e che possa scuotere mente e cuore, mentre dopo un minuto di pura violenza hardcore arriva un bridge grunge che lascia un po’ spaesati.
Di tutto il disco i brani che meritano una menzione sono sicuramente “Stomaco” in grado di uscire dalla scontatezza, lasciando intravedere notevoli potenzialità, in assoluto il brano migliore di tutto il disco insieme a “Colla”, ballata che incuriosisce, sia nel testo che nelle scelte di arrangiamenti. Anche “Floy” mi confonde, ricordandomi a tratti alcune cose dei primi Verdena o certo hardcore californiano della fine dei '90, al limite della copia. “Salutare” e “M.i.a.” sono troppo grezze ed è come averle già sentite, chissà dove e chissà quando. Piccola ripresa in “Via Prampolini”, in cui la componente emo diventa improvvisamente forte e urgente, subito però di nuovo abbandonata in “Fucile”, brano dalle sonorità decisamente sporche.
Un lavoro nel complesso stanco e ordinario, a tratti purtroppo anche monotono. Da una band che suona da anni e con più lavori all’attivo ci si aspetterebbe qualcosa di più.
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La recensione Iphutha di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2018-02-27 00:00:00
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