Il fascino della natura selvaggia, il bisogno di sentirsi parte di essa, ha affascinato tante menti della letteratura di tutti i tempi, nonché della cinematografia. Se Thoreau, London, Conrad, “Into the wild” hanno raccontato dell’uomo che cerca e si rivela nel contatto con la forma più primordiale di libertà nella natura, la narrativa di Gigante e del suo album “Himalaya” sposta l’occhio su chi nella natura ostile ci si ritrova, non la sceglie. Ispirato dalla lettura di “Tabù – La vera storia dei sopravvissuti delle Ande” di Piers Paul Read, che racconta dei terribili mesi vissuti dai sopravvissuti di uno schianto aereo costretti a cibarsi dei compagni, Gigante scrive il suo malinconico manuale di sopravvivenza al freddo, spostando l’ambientazione dalle Ande all’Himalaya, simbolo eterno della sfida tra l’uomo e la natura.
Della capacità di immaginare Ronny Gigante aveva dato già prova con la sua band, i Moustache Prawn, che ci avevano raccontato storie di esperimenti alieni, civiltà su altri pianeti, scienziati cattivi, con la leggerezza dell’indie-rock. Decisamente più plumbeo e ancestrale è invece il linguaggio musicale di questo album, che ha svelato pian piano in questi mesi la sua poetica. “Guerra”, il primo singolo estratto, aveva già fornito le coordinate: atmosfera nordica che però assume varie elementi estranei ai paesaggi invernali, come l’ukulele e i canti a tenore, infiltrati di synth cosmici, per un sound complesso e sinestetico. Il ritmo marziale incalza la morbidezza del cantato, che ha la particolare capacità di sapersi infiltrare nel tessuto sonoro diventando a sua volta suono: una voce che non è la canzone ma si mette al servizio della canzone. Non per questo i testi scompaiono negli arrangiamenti: il romanzo di sopravvivenza di Gigante inizia a delineare il suo paesaggio di alberi, neve, cime, luce grigia riflessa sull’acqua. A questo filone più tenebroso e sconfitto appartengono “Bosco”, un western spaziale, “Tenebra”, il brano con un cuore pulsante di elettronica che piano piano emerge dall’ostinato di ukulele, e infine “Fiume”.
All'inizio si sono fatti i nomi di Beirut e Iosonouncane, e a ragione, ma esiste anche un filone più world nella sua musica, ascrivibile a quelle esperienze etno-psych-rock dei Goat: l’uso massiccio dei fiati e di certe melodie dal sapore asiatico (come Gigante stesso conferma, le sigle dei cartoni animati giapponesi sono una delle sue fonti di ispirazione) contaminano il post-punk e i synth sinistri e maestosi, che ricordano quelli che davano voce a boschi ben più noti, situati nei pressi di un paesino immaginario chiamato Twin Peaks.
Il momento però in cui si è capito davvero che "Himalaya" poteva raccontarci una storia completamente nuova ed eccitante, è stato quando è stato pubblicato il singolo “Sopravvissuti”, il brano che accoglie nel suo arrangiamento sontuoso tutta la gamma di suoni e colori a disposizione del talento di Gigante. Il pianoforte svolazzante, i synth che aggiungono punti luce, raccontano una storia di agghiacciante autoironia, che diventa dolorosissima alla luce del cinismo di “Buon anno”, la frase con cui i sopravvissuti si salutavano nel momento della morte. Un canto corale alla ricerca della solidarietà umana, un tema forte e toccante che Gigante riesce a declinare in sole due parole e con l’escamotage di cantare tutto il brano alla prima persona plurale: quel “Crediamoci, non pensiamoci” disperato e terrificante, che costringe al riascolto continuo, con lo stesso spirito di attrazione per il lato oscuro che ci spinge a guardare i film horror o a leggere la cronaca.
Risolvendo questo senso di angoscia nella bellezza della musica, “Himalaya” ha il fascino della grande letteratura e la maestosità dei film d’avventura. Niente male per un musicista che ha scritto, arrangiato, registrato e prodotto il suo disco da solo, con buona pace dei produttori blasonati e delle etichette sforna-hype. Nella musica italiana contemporanea spesso si parla di fenomeni, ma nell’accezione sbagliata del termine. Gigante è un fenomeno vero, nel senso più cristallino, perché ha una visione molto ampia di come e cosa vuole raccontare, regalandoci un disco complesso ma non accademico, popolare ma ricercato. Crediamoci.
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