“Touché”, l’esordio di Mèsa, è come uno schiaffo. Di quelli che si danno alla gente per svegliarla.
Di questi tempi una cosa che ci viene piuttosto bene è lamentarci. Il lamento, il 90% delle volte, è causato dal fatto che le cose e la realtà non corrispondono all’ideale che ci aspettiamo. Il lamento deriva da una aspettativa tradita, che ci porta a cercare inevitabilmente qualcos’altro.
Si potrebbero fare una miriade di esempi, a cominciare dall’assurdo turnover della cosiddetta classe dirigente. L’instabilità dei nostri governi, dei nostri rapporti, dei nostri lavori e in generale delle nostre vite rispecchiano l’instabilità che ci portiamo dentro. Una cosa positiva però il lamento ce l’ha. Si tratta infatti del preludio al cambiamento.
Il nostro problema, forse, in questa contemporaneità, è che spesso tutte le energie sono rivolte al dissenso (il più delle volte un dissenso da tifoseria) e molto poco agli sforzi razionali per capire cosa non funziona o alla ricerca delle eventuali soluzioni da adottare.
Anche lo stato dell’arte la dice lunga su chi siamo e come lo facciamo. In questo momento propizio per la musica prodotta dalle etichette indipendenti italiane rifiutare la novità, e rimpiangere i tempi che furono, non è un atteggiamento costruttivo.
Così come abituarsi alle cose, abituarsi a chi siamo, senza fare nulla per innovare (termine ormai abusato dal mondo aziendale e politico) ma soprattutto senza fare nulla per suscitare ciò che ci fa esser lieti di esistere e che il più delle volte ci muove: lo stupore e la bellezza.
“Abituarsi è l’arte di arrendersi”. Non l’ho scritto io, ma Mèsa.
Già dalle primissime note di “Non me lo ricordavo” ci ritroviamo catapultati in un mondo cangiante, che altri non è che quello in cui stiamo vivendo. Non è il brano migliore del disco questo, eppure ne è una specie di manifesto: c’è uno strano rapporto, di mutuo supporto, che intercorre tra le parole utilizzate da Mèsa nelle sue canzoni, la voce particolarissima ma a modo suo classica, e la metrica che, a un primo ascolto, potrebbe anche disorientare. Come se i testi eclettici e la vitalità stilistica vocale facessero da traccia alla musica e viceversa.
“Lividi a Pois”, “Un esercito orizzontale” e “Il mare tra il dire e il fare” sono tutti brani caratterizzati da una apparente semplicità, dove si alternano immagini oniriche ad argomenti e parole che mi fanno pensare, quantomeno nell'attitudine, a certo punk californiano anni ’90, in cui tematiche postadolescenziali si mescolano a immagini emozionali. Penso a un album come "Acoustic", di Joey Cape dei Lagwagon e Tony Sly dei No Use For a Name e a brani come “International You Day” o “Violins”.
“A chi” è un inno al desiderio enorme che ci portiamo dentro. Un’ode a chiunque non si accontenti delle risposte che il mondo ci dà, di “un’ora che non è mai quella giusta” e di qualcosa che sempre “è troppo grande per entrare nel cuore”. Il pezzo più bello di tutto “Touché”.
“Mettiamo il caso che un giorno mi sveglio / e quando alzo la serranda / tutto quello che riesco a vedere fuori dalla finestra / sono le cose che non ho”: “Le metamorfosi dell’aria” è forte di una delicatezza capace di sciogliere qualunque resistenza.
In “Canzone retorica” e “Morto a galla” balza subito all’occhio la Mèsa più malinconica e, nonostante la scelta di certi cambi di ritmo un po’ avventati e gli stop & go non precisissimi, che senz’altro miglioreranno nel tempo, non si può dire di certo che il risultato finale non sia degno di un esordio. Si tratta di due tracce (e in un certo senso di un po’ tutto “Touché”) che potrebbero funzionare come un mosaico. Un’opera variopinta composta di infiniti tasselli, di disegni apparentemente semplici, quasi stilizzati, eppure articolati, che a volte spiazzano e che possono essere ammirati nei tanti dettagli oppure, prese le giuste distanze, da una lontananza valorizzante.
“Tutto” è l’ultimo colpo di coda energico di un’anima anarchica che ha tanta voglia di fare musica. La conclusione di questi quarantacinque minuti decisamente attraenti è lasciata a “Oceanoletto”: brano che ha l’aspetto della quiete dopo la catarsi.
“Ma quanti sbagli fai. Non me lo ricordavo”. Lo dico a chi si lamenta. Poi lo dico anche a me. Che bello sarebbe ricordarseli tutti, i propri sbagli, che sono così tanti. Non per buttarsi merda addosso o per fare autocritica sterile e tentare di pulirsi le coscienze. Ma perché, non sarebbe forse questo il primo passo per il miglioramento? E quindi brava Mèsa che lo dice con le sue parole e la sua musica. Un esordio, questo, che è come uno schiaffo. Di quelli che si danno alla gente per svegliarla.
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La recensione Touché di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2018-03-05 00:00:00
COMMENTI (1)
disco di qualità già si sente!!!!!