“La bellezza salverà il mondo” pare sia una delle frasi più utilizzate da cani e porci per esorcizzare le brutture del mondo. Quanto poi sia profetica dobbiamo ancora capirlo. I Dead Cat In A Bag si accodano alla carovana e, da par loro, ci costruiscono sopra un disco intero: “Come riesce la gente ad affrontare il giorno? Con un atto di fiducia nel potere della bellezza”. Evidentemente loro ci credono davvero. E col senno di poi, visti i risultati, fanno anche bene.
Già, perché alla fine è proprio una straniante bellezza – per quanto sfigurata, torva e poco rassicurante – a fungere da collante tra tutte quelle fette di mondo che la band piemontese ricompatta dentro il proprio folk panoramico e corvino per raccontare la vita e la morte, la resa e la rinascita, l’amore e la disillusione, alla stregua di un manipolo di nomadi post-atomici di nero vestiti che percorre trasversalmente il globo alla ricerca di un Dio a prezzi di saldo.
Orchestrali di talento, con indole da buskers e postura da cowboy, Luca Swanz Andriolo e Soci deflagrano tutta quella sensibilità letteraria che si trascinano dietro, sin dal nome che si sono scelti (leggasi Mark Twain), attraverso partiture colte e polverose al contempo che guardano con devozione alla magmatica spiritualità di personcine come Leonard Cohen (”Promises In The Evening Breeze”), Nick Cave (”Thirsty”), Tom Waits (“The Place You Shouldn’t Go”) e David Eugene Edwards (“The Voice You Shouldn’t Hear”). Ma questi ultimi rappresentano giusto i muri portanti di un’ambiziosa progettualità folk-centrica che, partendo dalle varie declinazioni del country, va oltre la mera riproposizione di archetipi collaudati per farsi promotrice di una cupa tentacolarità atmosferica – e strumentale – che ha il cuore in America e gli occhi dappertutto: non stupitevi dunque se il jazzy-western notturno di “Not A Promise” farà il paio con la cover in salsa Wovenhand della leggendaria “Venus In Furs”, se gli umori morriconiani di “Sad Dolls” anticiperanno le cinematografiche melodie mariachi di “Mexican Skeletons”, oppure se la tormentata incursione francofona di “Le Vent” – che il solo immaginarla interpretata da Léo Ferré fa già gonfiare il cuore – culminerà nello struggimento di quella “The Clouds” che sembra rievocare di rinterzo la “straziante, meravigliosa bellezza del creato” di pasoliniana memoria.
Certo, oltre ai grandi padri poco sopra citati potremmo snocciolare uno a uno tutti gli altri ingombranti riferimenti musicali che questo disco umbratile e camaleontico si carica sulle spalle (in primis Mark Lanegan, The Pogues, Swans, Capossela, Calexico, Tindersticks, Waterboys e The Klezmatics) nonché gli svariati generi scandagliati (country, rock, tex mex, klezmer, chanson française, celtica, balcanica, neofolk, jazz) ma rischieremmo di sminuire il valore aggiunto di un lavoro magistrale che non ha nulla di emulativo in quella sua babelistica commistione di musica, cinema, teatro e letteratura (e in quest’ottica l’epico bluegrass di “Waste” potrebbe rappresentare un abstract esaustivo e folgorante).
Alla fine se la bellezza salverà davvero il mondo forse non lo sapremo mai, certo è che in tal senso non si potrà imputare a questo disco il fatto di non averci provato.
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